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Piano Pastorale 2005 2006 PDF Stampa E-mail
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sabato 03 settembre 2005
Image “IL NOSTRO DIO VI RENDA DEGNI DELLA SUA CHIAMATA!” (2Ts 1,11)

Messaggio iniziale (Saluto e Introduzione)

Figli dilettissimi,
il Signore “vi renda degni della sua chiamata
e porti a compimento, con la sua potenza,
ogni vostra volontà di bene” (2Ts1,11)!

Quest’anno rifletteremo sul motivo stesso per cui io posso chiamarvi “figli” e voi potete riconoscermi come “padre nella fede”, e perchè voi tutti potete, in Cristo, chiamarvi “fratelli” e “sorelle” in forza della chiamata che ci ha portati ad essere nella Chiesa quello che siamo, ognuno secondo il dono di Grazia ricevuto.

Figli diletti, Dio irrompe con la sua chiamata nel concreto scorrere dell’esistenza, senza un tempo stabilito, senza guardare età, razza, sesso o condizione sociale. C’è come un appuntamento che Lui prepara con ciascuno fin dall’eternità. La sua Grazia spiana la strada, dispone il cuore alla capacità di accoglierlo, secondo la sua imperscrutabile “prescienza” (cf. 1Pt1,2) .

Dio, tuttavia, lascia all’uomo la libertà di accettare o no il suo invito. Questa libertà, una volta che sia stata accolta la sua chiamata, comporta un cambiamento di direzione dello sguardo (conversione) e porta l’uomo a vedere nuove tutte le cose e a interpretarle in una luce diversa, come in una vera metamorfosi dei pensieri (metànoia).

La chiamata (anche di chi è già battezzato), quella che coinvolge la coscienza razionale dell’uomo e la sua dimensione affettivo-emotiva, nasce dalla Parola, a volte anche per un Suo misterioso e silenzioso pronunciarsi nel cuore: TI AMO. E il cuore si sente bruciare in Essa senza consumarsi, come il roveto ardente di Mosè. E’ la scoperta, tutta interiore, tutta sola: IO SONO AMATO.

“E’ grazia
essere amati, e più ancora
lasciarsi amare; e scendere
al centro del cuore
e portare la veste nuziale
e tornare all’innocenza primeva,
tornare ad essere in pace” (Turoldo).
E’ la caduta da cavallo, il disarcionamento di tutte le sicurezze, l’affidamento a Qualcuno di tutte le domande sospese, di tutta la fragilità avvertita fortemente e posta al sicuro sotto la potente mano di Lui, è una nostalgia definitiva, un sentire altrove il paradiso perduto (eppure percepirlo di nuovo raggiungibile, raggiunto), è il crollo di tutte le illusioni sul mondo (esse cadono come squame dagli occhi), eppure avvertire un’espansione del proprio essere, è finalmente sapere che un Altro ci ama di un amore che non è quello con cui di solito inganniamo noi stessi,  scoprire che siamo ammalati di questo Amore e che solo chiediamo di non più guarire, e che questo Amore sulle nostre labbra, nel nostro cuore, come Luce Fulgente nel giorno e nell’oscura notte, è Crocifiggente, Crocifisso, Potenza della Croce (Evdokimov).

E’ di questa misteriosa chiamata alla sequela di Cristo che vogliamo parlare nel Piano Pastorale di quest’anno, di ciò che la ostacola e la favorisce, del suo accadimento, delle sue caratteristiche, di come si inserisce nel vissuto della comunità ecclesiale, di cosa la può fare indebolire o, a volte, negare. Parleremo dunque del cammino vocazionale di ogni credente; perché senza una vocazione, una chiamata di Dio, nessuno sarebbe nella Chiesa quello che è; nessuno potrebbe crescere nella statura dell’uomo perfetto, che è Gesù Cristo, e diventare veramente conforme alla sua volontà. Lo faremo nella prima parte sviluppando alcuni presupposti teorici, nella seconda cercando di incoraggiare un’azione pastorale più attenta alla dimensione personale e comunitaria della vocazione.

“Ha bisogno, la Chiesa, di riacquistare l’ansia, il gusto, la certezza della sua verità … di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda di quell’amore che si chiama carità… di sperimentare la pressione, lo zelo, l’urgenza di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Essa ha bisogno dello Spirito Santo, in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi-Chiesa. Ecco, di Lui, soprattutto, ha oggi bisogno la Chiesa! Dite dunque e sempre tutti a Lui:«Vieni!» (Paolo VI).

Dunque, cari figli, ripensiamo alla nostra chiamata, e facciamo, anche di questo piccolo scritto che vi dono, una buona occasione per far risuonare la voce di Cristo nel cuore di tanti uomini e donne che sono in attesa di ascoltarla. Il piano pastorale non vuole essere solo un’indicazione operativa, ma soprattutto una lunga lettera, un insegnamento rivolto a tutta la Diocesi per manifestare la mia sollecitudine di Pastore e stimolare la riflessione di fede sui temi che più ci stanno a cuore.


All’altro capo dell’anima: l’Amore di Dio
L’iniziativa della chiamata è di Dio. Immaginiamolo idealmente all’altro capo di un telefono invisibile che unisce a Lui la nostra anima. Non possiamo che pensarlo innanzitutto nella sua realtà di AMORE.

Dio è Amore”(1Gv4,16 ). E’ il messaggio di Gesù. E’ Gesù, con la sua Pasqua, a rivelare la piena sorgente di questo Amore - il Padre suo - e a donare questo Amore - lo Spirito Santo - dalla Croce al momento della sua morte, e sotto forma di lingue di fuoco il giorno di Pentecoste.

Essendo Amore, Dio è Trinità, cioè Relazione in Se Stesso, ovvero Comunicazione.

Tuttavia “la relazione di Dio nelle sue Persone santissime è una comunicazione non solo nel senso che le persone divine comunicano tra di loro, ma anzitutto nel senso che si comunicano nell’amore reciproco, dando se stesse nell’amore” (Rupnik).

Il Padre, sorgente della Divinità, si comunica al Figlio generandolo eternamente;

il Figlio, eternamente generato, corrisponde alla chiamata del Padre comunicandosi eternamente a Lui;

lo Spirito Santo è questa comunicazione intradivina, il dialogo del Padre e del Figlio,Voce che racconta il loro vicendevole Amore. “Il primo ama quel che nasce da Lui; il secondo ama Quello da  cui nasce; e il terzo è lo stesso Amore” (S. Agostino)

Così i Tre si distinguono come Persone per il loro vicendevole ed eterno amarsi nell’Unità della stessa natura divina. Proprio questo eterno comunicarsi dell’Amore nelle Tre Persone divine costituisce il modello di ogni chiamata, che, altro non è se non il comunicarsi di Dio all’uomo mediante lo Spirito e l’accoglienza libera dell’uomo nella fede; essa dunque scaturisce da una relazione d’Amore (cioè da un Amore che è Relazione) con Dio Padre; costituisce in Cristo la vera identità di chi la riceve; provoca una trasformazione della realtà secondo la missione che nasce, per ognuno, dalla relazione stessa, cioè dallo Spirito Santo. Perciò come nella Trinità il Padre è Creatore, il Figlio è Redentore, lo Spirito è Santificatore, così nella Chiesa ogni uomo che corrisponde alla chiamata di Dio raggiunge la sua perfetta identità e missione.



I destinatari della chiamata: infiniti numeri per la rubrica di Dio

Il progetto salvifico di Dio riguarda l’umanità intera. “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4 ). Lui, infatti, “non fa preferenze di persone” (At 10,34), perché tutte le creature gli appartengono e tutte vuole chiamare al suo amore.

La Bibbia ci presenta una meravigliosa storia in cui la Creazione esce tutta bella dalle mani di Dio. E’ il peccato a creare un’insanabile distanza tra l’uomo e il suo Creatore. Il testo biblico è il racconto della pazienza di Dio, che riprende il dialogo con l’uomo per ricondurlo pian piano al suo Amore. La chiamata di Abramo segna l’inizio di una nuova storia. Dio chiama un singolo uomo per farne un popolo numeroso come le stelle del cielo. Nella storia sacra le singole chiamate corrispondono sempre a un progetto di salvezza che supera il singolo e coinvolge il popolo tutto nel suo rinnovamento e nel rinvigorimento della sua fede in Jahvè. Nella predicazione profetica è spesso il popolo stesso nella sua interezza ad essere chiamato ad un nuovo fidanzamento con Dio (il deserto di Osea), ad una missione di amore universale (Il servo sofferente di Isaia), ad una rinascita (le ossa aride di Ezechiele). L’assemblea cultuale di Israele (Qaal Jahvè) rappresenta tutto il popolo eletto, cioè scelto, chiamato da Dio a partire da Abramo perché celebri le sue lodi e racconti le opere meravigliose di Lui.

Con la venuta di Gesù questo progetto si compie. Il Nuovo Adamo riporta l’umanità alla bellezza originaria della pace con Dio. Lo Spirito Santo, effuso nei cuori, restituisce all’uomo la sua figliolanza divina. Ogni uomo, chiamato da Cristo, entra a far parte della sua comunità, la Chiesa. Egli, rivolgendosi all’unicità irripetibile della persona (vieni e seguimi), la introduce ad una dinamica di condivisione del discepolato e della missione. Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Lumen Gentium) ha ribadito la tensione operante nella storia a includere nel nuovo Popolo di Dio tutti gli uomini: è la tensione tra annuncio del Regno ed edificazione della Chiesa che costituisce il mandato missionario di ogni battezzato “degno della sua chiamata”.

Proprio nel contesto della chiamata alla missione, Gesù dice:”Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20). Nessuno è semplicemente un numero davanti a Dio. Siamo conosciuti per nome, uno ad uno. Come dire: siamo nella “grande rubrica” di coloro che Dio ha chiamato.


Linee intasate e interferenze

Giungere all’ascolto della voce di Dio significa, per dirla con la nostra metafora, “prendere la linea”, sintonizzarsi veramente con Lui e non con i surrogati o le immagini deformate di Lui, vere interferenze all’incontro semplice con Cristo.

Oggi il mondo è pieno di messaggi che promettono salvezza. Il termine “spiritualità” è così abusato che significa tutto ( e quindi anche niente). Nel calderone della New Age il sincretismo religioso finisce con il proporre una “spiritualità senza Dio”, in cui la meta del benessere oscilla dalla pratica della meditazione al piacere del massaggio. Autori che vendono milioni di libri, come Paolo Coelho, se possono sembrare “rilassanti” a chi fa già un cammino di fede, risultanto assolutamente fuorvianti per chi cerca Dio e si trova a girare come una trottola, solo dentro se stesso.

All’interno di questo movimento un certo neo-gnosticismo di marca pelagiana (e prevalentemente di importazione U.S.A) promette all’uomo una felicità che non contempla la possibilità del dolore o della sofferenza. Il successo è la misura unica della realizzazione di sè oltre la quale c’è la rimozione del dolore, il suicidio, l’eutanasìa. In questa spiritualità Dio sta solo dalla parte dei vincitori.

Sempre su quest’onda si collocano due modalità di approccio religioso in cui Dio è assoluto protagonista nella manipolazione raffinata dei nuovi pionieri del sacro: sono l’approccio emozionale e quello magico-esoterico. Basta accendere la televisione. Predicatori abilissimi, veri anchor men del divino, riempiono gli stadi, fanno proseliti con le loro premonizioni, con le loro facili profezie e guarigioni in una miscela perfetta di elementi cattolici e protestanti conditi con un po’ di reincarnazionismo e qualche effetto speciale fra il talk show e il cabaret.

Ma a intasare i cuori di tanti cristiani (e non) sono anche maghi, cartomanti, divinatori. Ora più che mai. In una trasmissione televisiva una nota maga lasciò nella disperazione un vecchietto a cui aveva promesso di dire in quale parte dell’al di là si trovava suo figlio, morto in un incidente stradale. Ma c’era la pubblicità.

Questa spiritualità, che chiede poco in termini esistenziali (e molto in termini economici) però promette tutto: salute, denaro, e, se serve, la morte del nemico. Non ci stupisca pertanto, sulla stessa onda, la fede rovesciata del satanismo e dello spiritismo, oggi così in voga, e di tutte quelle forme di aggregazione che sulla mistificazione religiosa costruiscono l’esca incantatoria per i loro adepti.

Ma le linee sono intasate anche dai miti della bellezza, dell’amore facile, della ricchezza propagandati da certe trasmissioni in cui l’amicizia, l’amore di coppia e i rapporti parentali vengono trasformati in uno spettacolo pirotecnico di insulti e insinuazioni, e in cui vengono premiati solo i belli e i forti che hanno resistito di più nell’ipocrisia a pagamento, ripresi morbosamente dalle telecamere giorno e notte.

Tutto questo porta soprattutto i giovani ad uno stile di vita frenetico, sempre sopra le righe e insoddisfatto, in cui il paradiso non può più attendere: bisogna crearselo, anche con mezzi artificiali, in una struttura di vita senza pause per pensare, per guardarsi dentro, per toccare la propria anima. Viviamo in una cultura – dice Gillo Dorfles – in cui “l’intervallo è perduto”.

Anche le grandi religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islàm), molto impegnate nel confronto etico, socio-politico e culturale della congiuntura storica attuale, rischiano di perdere di vista il vero bisogno dell’uomo che è prima di tutto interiore. Solo una vera purificazione dei cuori e uno sguardo al Padre di tutti potrebbe far diventare l’incontro delle religioni non un ostacolo, ma un aiuto a vivere la propria risposta d’amore a Dio. “Da chi, - ribadisce Chiara Lubich - se non dalle grandi tradizioni religiose, potrebbe partire quella strategia della fraternità capace di segnare una svolta persino nei rapporti internazionali?”.

Il Cristianesimo, da parte sua, non può proporsi solo come garante di un ordine etico e portatore di una splendida civiltà del passato. Esso è attualità operante dello Spirito di Cristo Risorto. Il cristiano vero non passa inosservato nella storia; la sua vita interroga, il suo credo inquieta e trascina. Non ha insegnato Gesù nel santo Vangelo: ” Voi siete la luce del mondo, voi siete il sale della terra?” (Mt 5,13s).

I pregiudizi sulla Chiesa, infine, a volte meritati sul campo per la cattiva testimonianza di tanti cristiani, sono un ostacolo a che la chiamata di Cristo risuoni e venga accolta da cuori generosi, che nella nostra, come in tutte le generazioni, cercano sinceramente Dio. E la via, quella faticosa, ma veramente salvifica, è la stessa da duemila anni: la croce. Abbiamo bisogno di cristiani “degni della loro chiamata”, cioè di testimoni.


Il nostro numero: sempre occupato?

Quando l’uomo si lascia catturare dalle vanità del mondo difficilmente può ascoltare la voce di Dio che lo chiama.

Il cuore, occupato da altre chiamate, non sa scegliere. La chiamata di Cristo è infatti meno allettante delle altre, sebbene essa prometta, una volta accolta, il centuplo quaggiù e la vita eterna; ma, come dicevamo, supera il livello etico della semplice osservanza dei comandamenti. Ricordate il bellissimo episodio riportato dai Vangeli Sinottici, in cui un giovane chiede a Gesù cosa deve fare per avere la vita eterna.  Dopo che il giovane ha espresso la sua fedeltà ai comandamenti – sottolinea Marco (10,20) – “Gesù fissatolo lo amò e gli disse:«Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». “Ma – continua il Vangelo – egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni”. Il mistero della chiamata è il mistero dell’adesione di fede, che è incontro, accoglienza e sequela della Persona di Gesù.

In un cuore libero, tuttavia, più  facilmente avviene l’incontro tra l’esodo dell’uomo in cerca di Dio e l’avvento di Dio (in Gesù Cristo) alla ricerca dell’uomo. Nella parabola del seminatore (cf. Mt 13,3-23) solo nel buon terreno la Parola seminata fruttifica (ora il trenta, ora il sessanta, ora il cento), altrimenti viene strappata via per la superficialità (sulla strada), per l’incostanza (tra i sassi), per la preoccupazione delle ricchezze (tra le spine). Gesù mette in guardia dal pericolo delle ricchezze e delle sicurezze umane che dispongono alla superbia.

In una bellissima parabola sul Regno, gli invitati ufficiali alle nozze del Figlio del Re, manifestano il loro rifiuto motivandolo con banali scuse legate a interessi personali (cf. Lc 14,16-24); ebbene Dio “resiste ai superbi e innalza gli umili” (1Pt 5,5) e trova i suoi invitati ai crocicchi delle strade: ciechi, storpi, zoppi, i poveri di cuore a Lui graditi.C’è una nobiltà nella nostra chiamata che faremo bene a tenere nella massima considerazione se non vogliamo cadere nell’insignificanza di una fede scialba, insipida o manieristica e di facciata.


Avviso urgente… di chiamata

Se stiamo parlando al telefono e qualcuno ci chiede di interrompere la conversazione che abbiamo intrapreso perché ha urgenza di parlarci per prima cosa pensiamo che è di certo uno che ha molta confidenza con noi, che sicuramente ha buoni motivi, e che può permetterselo per la sua autorità. Non può essere certo uno sconosciuto. Così nella vita di tanti uomini e donne, Dio, dopo aver preparato il terreno (si chiama Grazia preveniente) fa improvvisamente irruzione con la sua impellente chiamata, chiedendo di lasciare tutto e di intraprendere una nuova via. Così la predicazione di Giovanni il Battista: ”Ecco l’Agnello di Dio”, porta due uomini a seguire Gesù: “Maestro dove abiti?”; “Venite e vedrete” (cf. Gv 1,35-39), e l’evangelista annota che “erano le quattro di pomeriggio”, l’ora in cui la loro vita era totalmente cambiata. Pensiamo alla scena in cui i pescatori di Galilea, dopo aver sentito l’invito di Gesù, lasciano subito le reti e il proprio padre per diventare pescatori di uomini (cf. Mt 4,18-22). A Levi basta una sola parola di Gesù:”Seguimi”, per alzarsi dal banco delle imposte e andargli dietro (Mc 2,14). Così a Filippo (Gv 1, 43). A Zaccheo vale come salvezza la curiosità di vederlo (cf. Lc 19,1-10).

La chiamata comporta sempre una conversione e un cambiamento di vita: a volte nei dinamismi interiori, dentro una condizione di vita già scelta (pensiamo a Teresa d’Avila, che era già monaca da 16 anni, quando si sentì chiamata ad una vita di orazione più intensa e ad una riforma del Carmelo); a volte con un cambiamento repentino del proprio stato di vita (Francesco di Assisi dinanzi alla vanità di una vita ricca e davanti all’orrore della guerra si spogliò di tutto per sposare madonna povertà).

La chiamata di Dio non fa alcuna violenza alla ragione, semplicemente la illumina con la luce folgorante di una fede più esigente. E’ come un fuoco che, bruciando il velo di ogni esteriorità, fa entrare (inabissare) nel Cuore amante di Dio e dentro la profondità di noi stessi.

Così accadde a Blaise Pascal.

“Fuoco.

«Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe», non dei filosofi e dei dotti.

Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace.

Dio di Gesù Cristo.

Oblìo del mondo e di tutto fuorchè di Dio.

Egli non si trova che per le vie insegnate nel Vangelo.

Grandezza dell’anima umana.

«Padre giusto, il mondo non t’ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto»

Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia.”

Queste parole del grande filosofo e scienziato costituiscono il suo memoriale, erano scritte su un biglietto che fu trovato cucito nella fodera della sua giacca dopo la sua morte, testimonianza della sua risolutiva conversione a Cristo nella notte del 23 novembre 1654, «dalle ore 10 e mezzo di sera fino alla mezzanotte e trenta circa», come annota lui stesso.

Non può essere una filosofia o una dottrina a cambiare la vita ma l’incontro personale con Cristo, l’irrompere del suo Spirito nell’animo credente che accende di amore purissimo il cuore e lo fa ardere e consumare per esso. Quando il Signore chiama e la coscienza umana ha l’umiltà di accoglierlo anche un’intelligenza e una razionalità superiori si piegano e balbettano il suo Amore.


Tu conosci il mio numero a memoria!?

Di questi balbettamenti non sono piene solo le pagine dei grandi chiamati della Storia della Salvezza (Isaia, Geremia, Davide salmista) o quelle dei grandi mistici della tradizione spirituale cristiana. La prima forte esperienza di Dio conduce sempre ad un balbettìo infantile e basterebbe che tanti giovani ci facessero leggere gli appunti presi nei loro ritiri spirituali per ritrovarlo. Tanti uomini e donne hanno cercato di raccontare la loro impressione di quella messa, di quella preghiera, di quel silenzio adorante in cui questo Fuoco hanno per la prima volta sentito e in cui il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe si è rivelato come il Dio Tenerissimo, Padre di Gesù Cristo. Parte sempre da esperienze così, vissute in un momento comunitario o nel silenzio della propria solitudine, o anche nella rivelazione improvvisa dentro il turbine delle faccende di ogni giorno, parte sempre da Dio la presa di coscienza battesimale: è quando il cherigma (Cristo è morto e risorto per me!), rimasto come sotterrato e inconsapevole, si rivela come Via Verità e Vita, Amore a cui non si può più rinunciare, che, pur nella dimensione di peccatori, si vuole - ad ogni costo! – testimoniare.

Ma la cosa più straordinaria è sentirsi “familiari di Dio”, cioè profondamente conosciuti da Lui, unici e irripetibili ai suoi occhi, intimi, cuore a cuore con Lui. L’uomo, mentre scopre la sua fragilità creaturale, contemporaneamente si accorge di poter contenere l’Incontenibile, si scopre, come dice sant’Agostino capax Dei, capace di contemplare Dio nel proprio cuore.

“Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, - scrive lo stesso Agostino - tardi ti ho amato!
Ecco, Tu eri dentro di me,
più intimo della mia stessa intimità (in interiore intimo meo)
e io stavo al di fuori: e qui ti cercavo”.

E il salmista proclama:

“Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
mi scruti quando cammino e quando riposo.
Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Tu mi conosci fino in fondo” (sal. 138). 

E in Geremia:

 “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,
prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato” (1,5s);

Conoscenza d’amore che, in Cristo, porta alla gloria:

“Del resto, - dice san Paolo - noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno”. Infatti “quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8, 28.30).

Dio conosce a memoria il numero di ogni cuore. Lo comporrebbe ininterrottamente, in un’incessante chiamata d’amore, se solo si prestasse sempre ascolto alla voce interiore del suo Spirito: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8, 16s).


Identità sul display

Non possiamo conoscere il contenuto delle singole conversazioni che tutti i chiamati intrattengono con il loro Dio; sono segrete; fanno parte dell’intimità della vita in Cristo; sono discorsi d’Amore.

Di questo Amore sappiamo quello che le Scritture ci rivelano, le forme del suo linguaggio; possiamo esprimere se non le parole, le coordinate teologiche del linguaggio amoroso che l’adesione a Cristo produce tra Dio e l’uomo.

Innanzitutto il senso di gratitudine per il dono della vita ricevuto. La chiamata alla fede è la grande scoperta di un Altro che ci ha pensati e amati ancor prima della nostra nascita; è la scoperta della paternità di Dio in quanto Creatore.

Ma è in Cristo che noi vediamo quell’immagine e somiglianza secondo cui siamo stati creati da Dio Padre. “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà” (Ef 1,4-6). L’incontro con Cristo ci apre alla vita della Grazia che si comunica a noi e ci conduce alla statura dell’uomo perfetto, quella raggiunta da Lui in forza della sua Pasqua. Infatti, “Era ben giusto che Colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha portati alla salvezza”(Eb 2,10). E’ la perfezione di Cristo che ci conduce alla gloria del Padre.

Gesù, infatti, verbis et gestis, è venuto a compiere le opere del Padre, la sua missione è stata quella di far conoscere, rivelare, manifestare, attraverso la sua Persona, l’Amore del Padre. Lui stesso ci introduce nel mistero della sua relazione con il Padre. “Gli dissero allora: «Dov’è tuo padre?». Rispose Gesù: «…se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio»”(Gv 8,19). E più avanti: “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38). E’ Gesù la via per raggiungere il Padre: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Ma lo stesso incontro con Gesù è azione chiamante del Padre: “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre” (Gv 6,44). Per iniziativa amorevole del Padre, il Figlio Gesù ci rivela il loro Amore e ci costituisce nella condizione di figli. “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida Abbà, Padre” (Gal 4,6; cf. anche Rm 8,15). “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1).

Ed ecco questa teologia vissuta nella carne e tradotta in preghiera da uno dei testimoni di Cristo nel secolo appena trascorso, Charles de Foucauld:

“Padre mio, io mi abbandono a Te,
fa’ di me ciò che ti piace.
Qualsiasi cosa tu faccia di me io Ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto
purchè la Tua volontà sia fatta in me e in tutte le creature.
Non desidero altro, mio Dio.
Rimetto la mia anima nelle Tue mani,
Te la dono, mio Dio,
con tutto l’amore del mio cuore,
perché ti amo,
ed è per me una necessità d’amore
il donarmi e rimettermi nelle Tue mani
senza misura e con infinita fiducia,
perché Tu mi sei Padre”.

Il battezzato, configurato a Cristo e reso partecipe della natura divina (cf. 2Pt 1,4), è abitato dalla Trinità e la Pasqua di Cristo diventa Pasqua in Lui, passaggio ad una vita nuova, come quella dell’uomo che trovato il tesoro nel campo, lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e lo va a comprare. (cf. Mt 13,44-46) ). Chi porta alle sue estreme conseguenze questa gioia potrà dire come Paolo: ”Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,8).

L’esito di questa vita spirituale incentrata sul vivere da figli di Dio è che la “perfezione del capo” diventa “perfezione delle membra”. La vita della Chiesa, con i suoi doni carismatici,  ha infatti  questo scopo: “edificare il corpo di Cristo, finchè arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla maturità di Cristo” (Ef 4,13). Questa “conoscenza del Figlio di Dio” permette di annunciare, ad una società senza padri, la paternità teologale di Dio, che precede nell’ordine della creazione ogni paternità umana.



Inoltro chiamata

La vita in Cristo è ciò che dà senso all’esistenza del cristiano e la via per gustare fin da ora le primizie del Regno che saranno elargite nel paradiso. Ma essa non può restare chiusa, sigillata. La dimensione trinitaria dell’amore, come in Dio anche nel cristiano, apre il cuore all’esterno, alla missione. Annunciare Cristo significa desiderare condividere con tutti l’Amore effuso nei nostri cuori (Bonum est diffusivum!).

Mentre i chiamati dell’Antica Alleanza si facevano interpreti della Parola di Dio che sentivano nel cuore e la testimoniavano per la loro fede in Jahvè (Abramo è il padre di questa fede), i chiamati del Nuovo Testamento, a partire da Maria (lei è l’unica discepola dei due Testamenti), si incontrano con questa Parola che si è fatta Voce e Sguardo, una persona concreta, cioè Gesù.

Seguire Cristo, portare la croce, significa vivere il suo stesso amore al Padre: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15, 8); continuare nel mondo la sua missione secondo il comando di Gesù stesso il giorno della sua Pasqua: “Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo»” (Gv 20, 21s).

Nel mandato missionario del Signore il dono della chiamata, ricevuto nel battesimo e accolto in una autentica conversione di vita, va “inoltrato” a tutti perché in tutti la “gioia sia piena” .


Là, dove il segnale è forte!

Dopo aver dato alcune coordinate sul senso teologico della chiamata conviene calare questi temi nel vissuto esperenziale e pastorale della nostra chiesa. Vuole essere un modo per sensibilizzarci a vivere un anno vocazionale, cioè di riflessione e di più intensa preghiera per tutte le vocazioni che edificano la Chiesa nei suoi diversi aspetti, secondo l’immagine paolina di un corpo che ha tante membra.

Avendo detto che ogni chiamata è unica e irripetibile; che è la risultante di tante circostanze esteriori e interiori, di vissuti, a volte lenti e faticosi, che approdano infine alla conversione, bisogna tuttavia precisare che due elementi sembrano indispensabili perché questo approdo cosciente si realizzi: l’annuncio e la testimonianza.

La fede nasce dall’ascolto (fides ex auditu) e l’esperienza di essa germina  dall’imitazione di altri che ne danno testimonianza (“Fatevi miei imitatori!”, 1Cor 4,15). Dietro ogni consapevole scelta di vita cristiana c’è sempre l’annuncio credibile di qualcuno e la testimonianza autentica dell’amore di Cristo vissuto “non a parole, né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1Gv 3,18).

Quando queste due realtà vengono sperimentate in contesti di forte coinvolgimento esistenziale, allora il segnale vocazionale diventa fortissimo e si propaga il desiderio di spendere la propria vita per Cristo.

La famiglia è il primo ambiente vocazionale; all’interno di essa viene appreso non solo il primo contenuto della fede (il segno di croce, le prime preghiere, la devozione ad alcuni santi), ma anche il peso che si dà a Dio nella propria vita e il valore che si attribuisce al darne testimonianza. Chi cresce in una famiglia che crede nella sua vocazione cristiana, si sente prima o poi spinto a interrogarsi sulla volontà e sul progetto di Dio nella propria vita, specialmente se la famiglia ne fa tema di preghiera nell’intimità domestica.

Lo stesso vale per la parrocchia. I modelli e gli stili di vita (familiari, sacerdotali, di impegno laicale) che in essa vengono vissuti sono altrettanti segnali per l’orientamento vocazionale. Una vocazione ne chiama un’altra. Non è un caso che là dove fiorisce una vocazione al sacerdozio, o di speciale consacrazione, più facilmente ne maturano altre. Animatori e parroci che non parlano ai fedeli dei vari modi di vivere la chiamata battesimale perdono tante occasioni di crescita carismatica e vocazionale delle proprie comunità. Tutti i ritiri, i pellegrinaggi, i momenti di preghiera possono essere occasione di annuncio vocazionale. In particolare la celebrazione dell’eucaristia domenicale con la sua animazione (dal canto al servizio liturgico) è ambito privilegiato di annuncio e testimonianza vocazionale. Abbiamo già tante volte evidenziato che i gruppi chierichetti e i gruppi ministranti delle parrocchie sono luoghi naturali di ricerca vocazionale. Il Mo.Chi (Movimento Chierichetti) e l’Ufficio Liturgico Diocesano possono essere due punti di riferimento per la loro animazione spirituale e per momenti di formazione comuni in vista anche di una ministerialità laicale “di fatto” o istituita. Un senso squisitamente vocazionale assume l’impegno di laici adulti in parrocchia. In particolare la catechesi acquista una credibilità preziosa per la maturazione della fede dei ragazzi e per una loro opzione più cosciente per Cristo.

Tutti i gruppi giovani, direttamente legati alla parrocchia o inseriti in Movimenti e Associazioni, possono essere considerati “gruppi vocazionali”; è, infatti, nella natura del giovane la ricerca del senso della vita e il bisogno di “modelli” adulti sani come riferimento esistenziale. In essi un ruolo “vocazionale” determinante spetta alla capacità degli animatori. Bisogna riconoscere che dai Movimenti e dalle Associazioni sono nate nel post-concilio molte vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata; proprio questa loro vitalità non deve spegnersi, anzi incanalarsi sempre più nella costruzione ordinata della nostra Chiesa particolare in comunione con il suo vescovo.

            I campi estivi, di lavoro, di formazione o di spiritualità, sono sempre momenti di forte crescita vocazionale; non è raro che laici o sacerdoti ricordino momenti particolari in cui, all’interno di queste esperienze, hanno percepito per la prima volta il desiderio di servire Cristo in una scelta di vero impegno di vita; magari poi approfondendolo e portandolo a compimento nella quotidianità del proprio cammino di fede. In diocesi non mancano occasioni di questo genere create dalle varie Associazioni ecclesiali e dai Movimenti, dai responsabili del Santuario di Sant’Anna, da diverse Congregazioni religiose, dal Seminario, e non per ultimo, dalle singole parrocchie che lodevolmente inseriscono nella programmazione estiva convivenze o campi di comunità.

Le esperienze di servizio e volontariato galvanizzano la vita spirituale, danno motivo di riflessione spirituale e conducono la vita verso l’assunzione responsabile di impegni concreti. Soprattutto i giovani a contatto con i poveri, con i disabili e gli emarginati maturano una coscienza vocazionale che li sprona a non sciupare la propria vita e a improntarla ad una maggiore gratuità. Sarebbe bello creare tante occasioni per il loro impegno.

L’amicizia spirituale è un valore straordinario nella crescita delle persone; il confronto in Dio dei propri doni e talenti può sprigionare un desiderio di offerta di sé e di donazione che nell’altro trova un sostegno e un aiuto concreto. “Basata sui doni divini che si riconoscono nella controparte, questo tipo di amicizia fa sì che i due amici procedano in pieno accordo verso Dio e uniscano le forze per tendere più efficacemente a lui” (Surin, Guida spirituale).

Il rapporto con un sacerdote, con un consacrato o una consacrata può essere, infine, occasione privilegiata di confronto e crescita vocazionale. Le figure del prete o del consacrato sono significative perché in una società fortemente pragmatica e consumistica  rimandano comunque a valori spirituali incentrati sulla gratuità e sul dono. Torneremo a parlarne a proposito dell’accompagnamento spirituale.


Il timbro della voce divina!

Una volta che il battezzato ha deciso di rispondere e approfondire la chiamata di Cristo comincia un cammino in cui il primo entusiasmo deve essere poi sostenuto da alcuni elementi di base della vita spirituale. Questi elementi non sono peculiari a preti, monaci e suore, ma appartengono a tutto il popolo cristiano, in una coscienza, rinnovata dal Concilio Vaticano II, della chiamata universale alla santità. Senza la costruzione di una vita spirituale seria può succedere quel che si dice nella già citata parabola del seminatore; la parola viene accolta con entusiasmo, ma non produce frutto, perché non arriva veramente in profondità fino a far germogliare le parole del salmista:”Saldo è il mio cuore, Dio, saldo è il mio cuore!” (Sal. 108,2).

Tre mi sembrano le tappe essenziali per lasciare risuonare la Parola in tutta la sua bellezza e dinamicità creativa e per poterne udire, per così dire, l’inconfondibile timbro : la preghiera, l’accompagnamento spirituale, la testimonianza del proprio carisma personale.


Sono solo, puoi parlare!


La preghiera è l’anima di ogni vero discernimento, perché nasce dall’Amore e produce il frutto della guarigione e della pace interiore, la dolcezza della Presenza del Signore e il desiderio di servirLo a imitazione degli apostoli e dei martiri. Cuore a cuore Dio parla e costruisce personalità capaci di rispondere sempre più docilmente al suo invito. Quando i grandi chiamati della Bibbia accampano scuse dinanzi alla chiamata del Signore, sono già così impastati di preghiera, che Dio può subito smontare le loro obiezioni e orientare i loro difetti verso la realizzazione del suo progetto (pensiamo alla giovinezza di Geremia, alla balbuzie di Mosè, alla spina nella carne di Paolo). Il primo grande annuncio vocazionale, dunque, è incoraggiare i nostri fratelli a intraprendere una personale vita di preghiera, ognuno secondo il suo stato e la sua condizione.  Non si tratta di moltiplicare il tempo per la preghiera, ma la qualità della preghiera.

La prima preghiera è, infatti, l’abbandono alla volontà di Dio, che è atteggiamento interiore più che moltiplicazione di gesti o di parole.

La pratica delle giaculatorie non è altro che la versione occidentale della bellissima preghiera del cuore dell’Oriente Cristiano (“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”) e offre infinite varianti che si possono trarre dal tesoro inestimabile della Sacra Scrittura. La giaculatoria è la versione cristiana del mantra delle spiritualità orientali. Già nel Medioevo l’anonimo autore della Nube della non conoscenza consigliava di usare per la preghiera frasi brevissime, anzi preferibilmente una sola parola, perché chi ha bisogno di un soccorso immediato non sta a moltiplicare le parole e a fare discorsi, ma grida semplicemente “aiuto!”. Perciò la preghiera breve penetra il cielo e può essere fatta in tutti i momenti della giornata; per questo si chiama giaculatoria, perché come un dardo (iaculum) si lancia verso Dio.

Il testo capitale per la preghiera è la Bibbia stessa, in particolare i salmi, oggi lodevolmente pregati anche da tanti laici. Ogni passo della Sacra Scrittura fatto risuonare nelle nostre orecchie corregge, esorta, guarisce.

La recita del Santo Rosario è una prassi che va incoraggiata, ma qualora venga pregato comunitariamente gli sia dato quel ritmo che gli è proprio di preghiera litanica e contemplativa. Lodevole ci appare anche la pratica ormai comune a tanti laici di celebrare insieme in parrocchia almeno qualche parte della Liturgia delle Ore (Lodi, Ora media o Vespri). Sarebbe auspicabile, durante questi momenti di preghiera, che si manifestasse anche un’intenzione per le vocazioni.

Ma il momento in cui la preghiera personale e quella comunitaria si fondono in quella di Cristo generando nuove vocazioni alla Chiesa (fons) e alimentandole con il pane disceso dal cielo (culmen) è la celebrazione dell’eucaristìa, soprattutto quella domenicale. Il legame tra l’eucaristia e la vocazione-missione lo esprime con parole semplici e profonde don Tonino Bello:”L’eucaristia non sopporta la sedentarietà. Non tollera la siesta. Non permette l’assopimento della digestione. Ci obbliga ad un certo punto ad abbandonare la mensa. Ci sollecita all’azione. Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo residenziali per farci investire il fuoco che abbiamo ricevuto in gestualità dinamiche e missionarie. Se non ci si alza da tavola, l’eucaristìa rimane un sacramento incompiuto”. La stessa forza missionaria si sprigiona dall’adorazione eucaristica. Nel clima del silenzio essa fa cogliere ancora di più quale fonte di salvezza sia il sacrificio della messa; pertanto, mentre prolunga i benefici della messa celebrata prepara il cuore a partecipare con maggior fervore a quella che ancora deve essere celebrata. “Già e non ancora” della vita spirituale è in essa che tanti cuori si uniscono al cuore di Cristo e decidono di intraprendere o riprendere il viaggio della santità in risposta alla chiamata del Signore.

E’ conveniente infine istruire e istruirci su una pratica pericolosamente abbandonata: la meditazione personale o l’orazione mentale. Anche per quanto riguarda la meditazione ciò che conta è  la qualità, più che la quantità e dunque nessuno se ne può sentire escluso. Educare al raccoglimento, al silenzio, fornire dei metodi per l’introspezione e abituare i fedeli ad una intelligenza (intus legere) della propria anima che faccia intravvedere il tesoro di Cristo e il mistero della sua volontà: tutto questo è più che mai urgente in un contesto in cui il pensiero è sempre frammentato, la riflessione continuamente interrotta. La pratica della Lectio divina, sia privata che comunitaria, è da raccomandare; come anche ridare in mano a tutti il tesoro di insegnamento dei maestri dello Spirito, consigliati dalla profittevole consuetudine della Chiesa o già proclamati Dottori della Chiesa. Testi come l’Introduzione alla vita devota (Filotea) di Francesco di Sales, La storia di un’anima di Teresa di Lisieux o la vasta produzione di alcuni maestri del Novecento (Thomas Merton, Chiara Lubich) sono veri tesori a cui attingere, assieme a tanti altri che vale la pena scoprire; ma farsi consigliare è meglio, prima di acquistare libri di scarso spessore che talvolta creano piuttosto confusione per la loro insufficienza metodologica e superficialità di dottrina; se si ha difficoltà ad approfondire i testi classici della vita spirituale, si può sempre cominciare con le biografie dei santi; in fondo non furono i santi stessi, pensiamo a sant’Ignazio di Loyola, a cominciare il loro cammino partendo dalle storie dei santi?

Rispondere alla chiamata del Signore significa dunque impegnarsi in un cammino di preghiera, ma anche, quando è possibile, cercare luoghi che la favoriscono.

I monasteri di clausura, da sempre, sono luoghi privilegiati dello Spirito. Ad Alcamo, in particolare, anche i laici, inserendosi armonicamente nel vissuto delle comunità monastiche possono attingere alle acque zampillanti della preghiera comunitaria offerta per i bisogni della Chiesa e del mondo intero.

Nella nostra Diocesi il monte Erice da sempre è luogo di ritiri e di preghiera.

La comunità delle Beatitudini vive e offre durante l’anno molti momenti di spiritualità, ma anche la quotidiana preghiera arricchita dell’adorazione eucaristica.

Anche il santuario di Sant’Anna, con la presenza delle suore Figlie di Sant’Anna che hanno scelto la via della contemplazione, offre uno spazio meraviglioso di silenzio e di raccoglimento. Molti gruppi e associazioni vivono loro momenti di preghiera e formazione al santuario; ma ricordiamo che ci si può unire anche alla preghiera delle suore, specialmente all’adorazione eucaristica ogni giorno da mezzogiorno alle tre del pomeriggio.

Anche il seminario è luogo in cui la preghiera si fa intensa soprattutto per invocare il dono di nuove e generose vocazioni al sacerdozio. Ogni giovedì sera si celebra l’eucaristia che viene prolungata con l’adorazione eucaristica. Momenti di ritiro e preghiera ormai si moltiplicano anche al seminario estivo di Valderice, accanto al suggestivo santuario della Madonna della Misericordia.

Sono diventati spazi di preghiera per la città di Trapani anche la chiesa di santa Rita e del Soccorso al centro storico.

A Calatafimi il santuario di Giubino apre anche d’inverno per favorire l’incontro dei giovani con la Lectio divina.

Propongo, infine, una scuola di preghiera da vivere mensilmente con i giovani in Cattedrale a Trapani.


Ti sento come se Tu fossi qua!


Da soli possiamo pregare, ma da soli non possiamo fare il discernimento spirituale sulla volontà di Dio nella nostra vita. Corrispondere alla chiamata di Dio significa sottoporre la nostra umanità al vaglio della sua Parola, attraversare una crisi (crisi significa giudizio), operare un discernimento (discernere significa riuscire a distinguere ciò che è buono per noi, da ciò che non lo è). Fare questo da soli comporta il rischio di una vita spirituale illusoria, con alcune tristi conseguenze: di non guardare alla realtà delle cose e manipolare lo Spirito a servizio delle proprie pretese (fanatismo – superficialità); di guardare la realtà solo con i propri ragionamenti  senza dare spazio alla libertà della Grazia (razionalismo – autosufficienza); oppure di avere paura della realtà e rifugiarsi nella fede come un animale braccato si rintana dentro una buca (vittimismo – instabilità). San Paolo mette in guardia contro questi pericoli, quando nella Lettera ai Galati (5,13) dice:”Voi fratelli siete stati chiamati a libertà. Purchè questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne”; e scrivendo ai Romani (8,15): “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo:«Abbà, Padre!»”.

La tradizione spirituale, sia orientale che occidentale, richiede al discernimento una relazione interpersonale. “E’ interessante, ad esempio, che gli antichi maestri spirituali non scrivessero regole per il discernimento, perché lo ritenevano possibile solo all’interno del discepolato e della paternità spirituale”(Rupnik). Il cuore dell’uomo è un abisso e la scelta di fede non lo esime dalla fatica di scrutare profondamente se stesso perché le sue azioni sgorghino veramente dall’Amore e non da un egoismo cammuffato anche sotto l’abito di una perfetta religiosità. Lo dice splendidamente San Paolo nel suo inno alla Carità: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor 13,3). Nel suo libro La vita comune Bonhoeffer usa in proposito parole durissime: ”Qualsiasi ideale umano, immesso nella comunione cristiana, ne impedisce l’autentica realizzazione, e deve essere distrutto perché possa vivere la comunione vera. Chi ama il proprio sogno di comunione cristiana più della comunione cristiana effettiva, è destinato ad essere un elemento distruttore di ogni comunione cristiana, anche se è personalmente sincero, serio e pieno di abnegazione. (…) Chi si costruisce un’immagine ideale di comunione, pretende la realizzazione di questa da Dio, dagli altri e da se stesso”. Queste proiezioni del proprio ideale sugli altri possono essere smascherate solo dal confonto umile con un altro fratello. “E’ necessario, (dunque), che la persona seguita nell’accompagnamento spirituale impari a conoscersi, ad osservarsi con realismo, ad acquisire familiarità cosciente con i suoi pensieri e le sue emozioni, con le sue difficoltà e le sue potenzialità, con i suoi bisogni e le sue pretese, con le ferite e con i blocchi che regnano nel suo cuore, con le aspettative inconsce che ha su se stessa, su Dio e sugli altri “ (Dell’Agli).

In un’epoca come la nostra in cui la scoperta del soggetto implica un’attenzione specifica ad ogni persona con tutti i suoi vissuti, pur essendo un bisogno così avvertito e urgente, è difficile trovare accompagnatori spirituali. E’ tempo di crisi, e quindi, speriamo, di una vera svolta. Un tempo erano soprattutto i religiosi ad avere il compito della cosiddetta “direzione spirituale”. Indipendentemente da quale termine si preferisca (l’accompagnamento privilegia l’aspetto relazionale del percorso, la direzione privilegia l’aspetto della meta e dell’orientamento del percorso) resta il fatto che è difficile per chiunque trovare persone (preti, religiosi o anche fratelli laici) veramente capaci di un così gravoso e delicato ministero.

Consegnare la propria anima a qualcun altro, implica infatti da parte di chi la riceve in consegna un’assoluta libertà dai pregiudizi, l’assenza di moralismo e una fede semplice e profonda che non si scandalizzi di nulla, ma che guardi l’altro con lo sguardo e la misericordia di Dio. Un cieco infatti non può guidare un altro cieco, cadranno altrimenti nella stessa buca (cf. Mt 15,14). Diventa dunque importante la formazione degli accompagnatori spirituali. Questa formazione da una parte deve attenzionare il potere terapeutico della Parola di Dio e le salutari indicazioni della dottrina spirituale della Chiesa nella duplice tradizione, occidentale (più attenta alla pratica delle virtù e agli aspetti fenomenologici del vissuto di fede) e orientale (più attenta agli atteggiamenti e ai moti della psiche); dall’altra deve conquistare un atteggiamento di fiducia verso le acquisizioni delle scienze umane nell’orizzonte di un’antropologia cristiana.

Gli obiettivi dell’accompagnamento spirituale si muovono su due binari: il primo  porta alla purificazione e alla guarigione del cuore attraverso lo smascheramento delle sue passioni (via purificativa); il secondo conduce a scoprire i doni di Dio alla luce della Parola di Cristo e sprona alla donazione di sé ai fratelli e, per Amore di Lui, alla pratica delle virtù (via illuminativa).

L’accompagnatore spirituale, deve essere contemporaneamente vicino e lontano, far sentire il suo calore senza creare una dipendenza o perdere autorevolezza. Tra accompagnatore e accompagnato non può esserci un rapporto paritario; per questo all’interno della relazione di aiuto si possono creare dinamiche di tipo genitoriale. Chi accompagna manifesta una paternità-maternità che, nell’orizzonte della fede, deve condurre chi è accompagnato alla libertà di essere figlio di Dio, ovvero di essere se stesso (è Cristo che rivela pienamente l’uomo all’uomo!), e di poter sperimentare questa figliolanza nella fraternità cristiana. Nell’esperienza dei grandi chiamati della Bibbia la vocazione coincide con l’identità. Dunque condurre chi è accompagnato alla propria identità, cioè al nucleo più profondo di se stesso, significa condurlo alla propria vocazione, a quella missione personale intesa come libera e responsabile adesione alla chiamata di Dio, che non contraddice la realizzazione pienamente umana di se stessi. Anche il limite può essere uno spazio di libertà per la conoscenza di sé e l’allargamento dei propri confini di conoscenza. Non è in fondo questo: “rendersi degni della propria chiamata”?



Con il  “vivavoce”!

Sarebbe bene mettere in luce, anche attraverso dei segnali pastorali, l’esigenza di un percorso di accompagnamento spirituale, soprattutto per i giovani. Nelle varie zone pastorali o nelle stesse interparrocchialità si potrebbero approntare dei programmi di formazione all’accompagnamento spirituale, o stabilire dei luoghi in cui sia possibile trovare un sacerdote disponibile a svolgere questo servizio. La scuola è un ambiente in cui sicuramente la presenza di un accompagnatore potrebbe far cadere tanti pregiudizi che i giovani hanno sulla Chiesa. A questo scopo in essa dovrebbe crescere la collaborazione tra sacerdoti e insegnanti di religione. Rinnoviamo poi l’auspicio che a Trapani si possa prima o poi aprire una cappella universitaria.

I presbiteri sono dei “direttori di spirito” in forza del ministero, ma anche i diaconi possono perfezionarsi in questa diaconìa della Parola attraverso il colloquio spirituale. Sacramento della riconciliazione e accompagnamento spirituale non per forza devono svolgersi insieme. Resta il fatto che un buon accompagnamento spirituale conduce ad attingere alla sorgente della misericordia e della guarigione che è la confessione sacramentale.

Anche i religiosi e le religiose si rendano più disponibili al colloquio e all’accompagnamento dei fedeli in una vita sempre più conforme al Vangelo di Cristo. Questo farebbe crescere la coscienza ecclesiale dell’impegno laicale, ma anche, ne siamo sicuri, porterebbe più laici a scoprire la scelta della consacrazione religiosa e del sacerdozio ministeriale.

Con la dovuta preparazione e delicatezza i laici che già svolgono un ministero ecclesiale (lettori, accoliti, ministri straordinari, operatori caritas, catechisti, insegnanti di religione) accettino volentieri di ascoltare altri fratelli che hanno bisogno di aiuto e di dar loro “consulenza pastorale”. Il Consiglio è un dono dello Spirito Santo e una delle opere di misericordia spirituale, ma va implorato con uno sguardo a Dio e con uno alla complessità dell’uomo, e quindi esercitando la somma virtù umana della prudenza.

L’accompagnamento spirituale deve aprire la risposta vocazionale a tutte le possibilità, secondo la multiforme azione dello Spirito: alla vita contemplativa, alla vita religiosa, al matrimonio, al sacerdozio, al diaconato, alla ministerialità istituita o di fatto, alla missione; ma può esplorare anche aspetti che sono pure carismatici sebbene non direttamente rivolti alla vita ecclesiale, e che possono riguardare la scelta della propria professione, l’impegno politico, artistico, socio-culturale o sportivo. Ogni cosa, se è fatta per dare gloria a Dio, è “vocazione”.

Perché ci sia una risposta vocazionale e una richiesta di accompagnamento spirituale, tuttavia, la comunità cristiana deve avere il coraggio di fare la proposta, la domanda sulla vocazione. Ad ogni battezzato infatti è dato un dono dello Spirito per l’edificazione della Chiesa. Per questo la proposta vocazionale va fatta esplicitamente. Sarà poi scelta del battezzato decidere se approfondirla o no.

La pastorale vocazionale è affidata a tutti. In particolare però quella familiare e quella giovanile hanno il compito di orientare i giovani verso una scelta di vita misurata sul Vangelo. Un compito specifico di sensibilizzazione vocazionale spetta al Centro Diocesano Vocazioni (CDV). C’è ancora un notevole cammino da fare perché questo Centro diventi veramente un raccordo di tutta la pastorale vocazionale, secondo uno sguardo che si rivolga a tutti i generi di vita.

Alcune realtà, come il Seminario, sono naturalmente orientate ad una pastorale vocazionale. Insieme da alcuni anni, CDV e Seminario, portano avanti la realtà giovanile dell’AGS (Amici Giovani del Seminario) e quella costituita prevalentemente da adulti degli Amici del Seminario, proponendo ritiri e momenti di formazione per l’orientamento vocazionale.

Alcune realtà associative vivono una spiritualità molto attenta alla dimensione vocazionale sacerdotale, come ad esempio il Movimento Apostolico e l’Associazione san Giovanni della Croce. Anche i due periodici Semi di contemplazione e Le storie di Sem, con destinatari e contenuti diversi, perseguono l’obiettivo di favorire il discernimento spirituale e l’orientamento vocazionale. Ma si spera che tutte le pubblicazioni parrocchiali (e sono ormai tante in diocesi) e l’uso dei mezzi di comunicazione trovino sempre più ampi spazi per parlare della vocazione cristiana.

L’auspicio è che attraverso la pratica costante della preghiera e un discernimento svolto con l’aiuto di un accompagnatore, ogni battezzato si ponga la domanda sulla chiamata specifica di Dio, si abitui a non nascondere i talenti che Dio gli ha affidato, accolga i suoi carismi e li metta con gioia a disposizione dei fratelli.



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La chiesa è il popolo dei chiamati. Il termine stesso rimanda alla chiamata che i suoi membri hanno ricevuto da Qualcuno. Come il singolo con il battesimo diventa tempio dello Spirito Santo e quindi dimora della Comunione trinitaria, così la Chiesa si compagina trinitariamente nell’unità di un solo Corpo.

Dunque la matrice cristologica della chiamata cristiana ne esige una realizzazione e una configurazione ecclesiale, che ha due orientamenti fondamentali, senza i quali la chiamata non può configurarsi come autentica:

il buon ordine dei carismi (taxis, 1 Cor,14,40) “perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace” (1Cor 14,33);

e l’ edificazione della comunità (oikodomè, 1 Cor 14,12)), perché “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1 Cor 1,7).

In un passo bellissimo Paolo sviluppa quest’idea della Chiesa Corpo in cui la presenza della Trinità configura le singole chiamate: “Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio che restiate nell’ignoranza. (…) Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore, vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1Cor 1,4-6). Quindi Paolo sviluppa l’apologo del corpo che ha tante membra, ognuno con un compito preciso perché “non ci sia disunione nel corpo, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre” (1 Cor 12,25).

La chiesa tutta ministeriale non può che essere una Chiesa trinitaria in cui ognuno donandosi all’altro diventa sempre più se stesso realizzando pienamente la sua identità. E poiché ogni battezzato ha ricevuto lo Spirito (Charis), dunque ha ricevuto anche i suoi doni (charismata). Tutti i battezzati sono carismatici. Questa affermazione sicuramente per voi ovvia è, tuttavia, una riscoperta. Per secoli infatti il termine “carisma” è stato abbandonato. Questo non ha impedito allo Spirito Santo di operare meraviglie nella Chiesa; tuttavia è bello che il Concilio Vaticano II abbia riscoperto la dimensione carismatica della Chiesa e l’abbia riproposta a partire dall’uguaglianza fondamentale di tutti i battezzati investiti del carisma regale, profetico e sacerdotale di Cristo. “E questi carismi, straordinari o anche adattati e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione” (Lumen Gentium 12).

Vi esorto, carissimi figli, ad attingere a piene mani alla ricchezza del Concilio Vaticano II. Ora più che mai bisogna riscoprirne la portata storica per la Chiesa (Ecclesia semper reformanda!). Almeno nelle quattro costituzioni dogmatiche che Esso ha promulgato.

La Sacrosanctum Concilium ha permesso ai laici un nuovo modo di vivere la liturgia riscoprendo in essa la ricchezza della Parola ascoltata nella propria lingua e cogliendo l’aspetto comunionale della cena eucaristica unito a quello sacrificale. Se tanti laici oggi pregano con la Liturgia delle Ore è grazie a questa apertura del Concilio.

La Dei Verbum ha riportato al centro della vita ecclesiale la Parola di Dio moltiplicando l’interesse di tutti i fedeli verso la Bibbia. In poco più di quarant’anni il Vangelo è ritornato nelle mani del popolo di Dio che, con l’aiuto dei presbiteri o di laici ben formati, lo legge, lo medita, lo approfondisce.

La Lumen Gentium ci ha fatto riscoprire la dimensione trinitaria della Chiesa e ha riproposto potentemente il ruolo di tutti i battezzati nella costruzione della comunità. Quanta ricchezza di doni carismatici si sono riversati nella Chiesa! Quando ancora i seminari erano pieni, lo Spirito Santo apriva profeticamente la Chiesa all’impegno dei laici e ricollocava il sacerdozio gerarchico nei suoi tre gradi (episcopato, presbiterato e il riscoperto diaconato) in stretta relazione con il sacerdozio comune dei fedeli, dichiarando che l’uno è ordinato all’altro e viceversa (LG 10). Entrare nello Spirito della Lumen Gentium significa debellare del tutto quella tentazione sempre frequente di dare un’immagine di Chiesa come società perfetta separata dal contesto sociale, piena di pastoie burocratiche che alla gente comune appaiono come trappole che allontanano dallo spirito del Vangelo.

E infine la Gaudium et spes faceva crollare il muro di diffidenza nel dialogo con la cultura e il pensiero del mondo contemporaneo, riportando tutta la Chiesa all’incontro difficile, ma irrinunciabile, con il divenire della storia.

Noi pensiamo che la Chiesa di oggi, pur con le sue difficoltà, sia in sintonia con il suo tempo, viva di quel soffio di rinnovata pentecoste che fu il Concilio Vaticano II.

Auspichiamo che la catechesi dei giovani e degli adulti attenzioni itinerari che introducano al mistero della Chiesa, ne presentino senza paura il volto divino e quello umano , perché sempre rifulga che Essa, “santa e sempre bisognosa di purificazione”, casta meretrix, come la chiamavano i padri, non è opera di uomini, ma di Dio.


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(Carismi)…

Ma quali e quanti sono i carismi? Essi corrispondono all’azione dello Spirito, che è libertà e soffia come e dove vuole; ma si rendono generalmente visibili in un percorso vocazionale di riscoperta del proprio battesimo.
Ma quali e quanti sono i carismi? Essi corrispondono all’azione dello Spirito, che è libertà e soffia come e dove vuole; ma si rendono generalmente visibili in un percorso vocazionale di riscoperta del proprio battesimo.

San Paolo ci esorta ad aspirare a tutti i carismi e anche a quelli più grandi, ma ci svela una via migliore di tutte: la carità! Ecco il carisma che non avrà mai fine! (1 Cor 13). Questo carisma è il dono della comunione. E’ il dono da chiedere sempre per l’edificazione della nostra Chiesa. La comunione infatti è un carisma evangelizzatore per eccellenza, perché sgorga dalla stessa Trinità: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21). La comunione tra i presbiteri, ecco un grande dono! Un presbiterio che vive il carisma della carità tra i suoi membri e con il vescovo è un incoraggiamento, una testimonianza, un sollievo per i laici, esortati non con le parole, ma con i fatti, a vivere la stessa comunione.

“Non abbiate alcun debito con nessuno se non quello di un amore vicendevole”, dice san Paolo (Rm 13,8 ). Questa comunione pervada l’agire di tutti gli organismi di partecipazione diocesana e all’interno delle zone pastorali il lavoro delle varie interparrocchialità! Ad essa siamo stati chiamati!


Alcuni carismi fioriscono senza un’apparente necessità, eppure ogni comunità ne deve implorare il dono.


Il carisma della presenza.

E’ la coscienza battesimale di essere un dono gli uni per gli altri. Non conta quello che si fa: “essere presenti” è un vero carisma che connota l’identità della comunità, le dà un volto, il suo e non un altro. Un anziano, un disabile, una vedova, un bambino, chiunque sia presente anche senza fare niente all’interno della comunità, identifica la comunità, che senza questa presenza non sarebbe la stessa. Nella chiesa primitiva l’assenza alla messa domenicale poteva essere giustificata solo da gravissimi motivi, perché altrimenti veniva considerata un gravissimo peccato nei confronti della comunità. Questo carisma dice anche alla comunità che “Dio non fa preferenze di persone” e che non ci sono cristiani di serie e categorie diverse.


Il carisma dell’accoglienza o dell’incontro.

Saper accogliere l’altro, saperlo incontrare veramente non è un fatto solo di educazione. E’ un dono, frutto di un cammino di crescita personale e di capacità di accogliere innanzitutto se stessi; perché nessuno può amare l’altro, se prima non ha imparato ad amare se stesso. Nelle comunità dove è forte l’invocazione di questo dono, si esprime più facilmente il senso dell’unità. Questo carisma contiene quello del sorriso, del bacio fraterno e dell’abbraccio, non come pantomime rituali di certe nostre tradizioni culturali, ma come espressione semplice di un cuore che vede Cristo nel fratello. Invochiamo per tutti questo dono; ma, cari figli, è pensabile che un operatore caritas, un responsabile dell’ufficio parrocchiale, uno che abbia il compito dell’accoglienza riceva tale incarico senza avere questo carisma? E un sacerdote non deve implorare per sè questo dono, quando apre la porta della sua chiesa, quando si dispone al confessionale?


Il carisma della consolazione.

E’ un dono meraviglioso dello Spirito. Nasce nel credente da una costante meditazione della Passione di Cristo, a volte vissuta in prima persona in certe esperienze dolorose della propria vita. Dinanzi a una persona che soffre, che vive un dramma interiore, che ha perduto una persona cara non sono le parole umane a consolare, ma il dono del Paraclito. Per questo il dono della consolazione contiene quello del silenzio compassionevole che accoglie nel proprio cuore il dolore dell’altro e lo trasforma in silenziosa preghiera di invocazione allo Spirito Santo:”Lava ciò che è sporco, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina” (Sequenza di Pentecoste). Perciò, non di rado, questo carisma è accompagnato anche da quello della guarigione interiore, lenimento e balsamo della ferita del fratello. Un ministro straordinario dell’Eucaristia o un accolito davanti al letto di un ammalato; un presbitero che accompagna spiritualmente una persona in difficoltà o che amministra i sacramenti medicinali della Riconciliazione e dell’Unzione degli infermi: sempre implorino da Dio questo dono.


Il carisma dell’insegnamento.

La capacità di penetrazione che ha un discorso non dipende necessariamente dalla bellezza delle parole, dall’abilità nel metterle una dietro l’altra e dal moltiplicarle, ma piuttosto da una forza interiore che sta nello sguardo, nel timbro di voce, nella serena convinzione di chi le pronuncia. Il carisma dell’insegnamento, accompagnato dal dono della scienza e della sapienza, innestato sui doni naturali dell’apprendimento e della curiosità, è prezioso nella trasmissione del deposito della fede e della ricchezza della Parola di Dio. Un catechista, un insegnante di religione, un docente di Teologia, un sacerdote durante l’omelia, se non chiedono allo Spirito questo dono rischiano di essere come “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1Cor 13,1).


La verginità.

E’ un carisma prezioso che non è mai mancato nella vita della Chiesa. Questo carisma ricorda alla Chiesa le esigenze del regno di Dio. Inseriti nel mondo, i cristiani non sono del mondo e in ogni momento anelano a ricongiungersi a Cristo Sposo, anticipando nella propria vita l’avvento del Regno definitivo. La verginità è il grido che lo Spirito e la Sposa innalzano al Cristo: ”vieni Signore Gesù!” (Ap 22,20). Questo dono è sempre strettamente connesso ad una scelta di vita celibataria che può declinarsi in vari modi. Un battezzato può orientarsi ad una testimonianza profetica dentro la propria condizione di vita (lavoro e impegno ecclesiale) scegliendo di non sposarsi; può scegliere l’ingresso in un Istituto di vita secolare, senza che riveli la propria appartenenza ad esso per una più efficace azione apostolica nel mondo; può consacrarsi al Signore nella vita religiosa secondo i voti di povertà, castità e obbedienza all’interno di una congregazione religiosa o di un ordine monastico o scegliere l’esaltante via della missione; oppure fare la scelta del ministero presbiterale, per l’edificazione strutturata delle comunità cristiane a servizio della propria chiesa particolare e in obbedienza al proprio vescovo. Naturalmente tutte queste scelte devono essere ufficialmente riconosciute attraverso un discernimento ecclesiale che ne valuti la retta intenzione e la capacità di esservi fedeli.


Anche la vedovanza che non accede a nuove nozze è un particolare carisma che profetizza “i cieli nuovi e la terra nuova”. Nel Vangelo di Luca la vedova Anna, figlia di Fanuele, ha la gioia di vedere il messia che entra nel tempio (Lc 2,36-38).


Di alcuni carismi straordinari (lingue, guarigione, visione profetica, etc.) parla san Paolo nel capitolo 14 della prima Lettera ai Corinzi invitando alla prudenza e all’ordine. Anche il Concilio si pronuncia e dice che “il giudizio sulla loro genuinità e ordinato uso appartiene all’Autorità ecclesiastica, alla quale spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono” (LG 12).


Dobbiamo sempre implorare i carismi dello Spirito, ma essi sono doni e la nostra vita di fede deve anche accettare che non si manifestino. La storia della Chiesa ci esprime questo mistero di fioriture carismatiche dopo periodi di travaglio e di apparente aridità e tiepidezza della testimonianza di vita cristiana. La santità è imprevedibile, ma non è mancata e non mancherà in nessuna epoca della Chiesa. Sono i santi, con i loro doni carismatici, a confermare al popolo di Dio in cammino che è sempre vera la Parola di Gesù mentre ascende al Cielo: “Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).


…& Servizi
 ( ministeri)

I doni carismatici sono fondamentali per la vita della Chiesa e molti di essi trovano continuità nella forma istituzionale dei ministeri; la ministerialità, sebbene fiorisca dal carisma, lo sottrae all’emotività e all’interpretazione personale, incanalandolo verso l’edificazione stabile della comunità cristiana, sotto la guida del vescovo.

L’istituzione dei ministeri può essere, lo sapete, temporanea o permanente.

Ministeri temporaneamente conferiti e annualmente rinnovati sono quello dei ministri straordinari dell’eucaristia, quello dei catechisti, dei ministranti e dei chierichetti.

Altri vengono esercitati “di fatto”: la proclamazione della Parola di Dio, il servizio di accoglienza, la guida della preghiera comunitaria, il servizio ai poveri e agli ammalati.

Altri vengono riconosciuti dalla Chiesa dopo percorsi di studio e approfondimento che abilitano ad esercitarli: l’insegnamento della Teologia, della religione nelle scuole, l’uso degli strumenti di comunicazione di massa, l’animazione culturale cristiana.

Alcuni ministeri laicali, invece, vengono ormai conferiti in maniera permanente attraverso la preghiera del vescovo: sono il Lettorato, a servizio della Parola, e l’Accolitato, a servizio dell’Eucaristìa.

Questi ministeri sono a servizio del popolo di Dio, e non sono privilegi. Servono a far crescere nel laicato il senso di appartenenza alla Chiesa.


Ci sono poi dei ministeri permanenti la cui continuità indefettibile è data dalla celebrazione di un sacramento.


Potremmo chiamare ministero permanente e segno carismatico all’interno della comunità il Matrimonio. Anche ad esso infatti deve corrispondere un carisma, quello dell’amore coniugale, che ha la caratteristica specifica di essere un carisma a due, in quanto due persone si incontrano, si amano e in Dio decidono di rendere sacramentalmente visibile il loro amore e farne una testimonianza per i fratelli. Abbiamo già dedicato al matrimonio e alla famiglia il piano pastorale dello scorso anno e abbiamo già messo in evidenza anche nel piano pastorale di quest’anno il ruolo della famiglia nell’annuncio vocazionale. Anche il ministero coniugale, aggiungiamo, richiede un accompagnamento spirituale; per cui anche la formazione delle coppie fidanzate, o già sposate, aggiunga al cammino generico anche percorsi personalizzati che portino veramente al nodo delle questioni.


A strutturare il “buon ordine dei carismi” e “la loro manifestazione per l’utilità comune” nella comunità sono i tre sacramenti che costituiscono i tre gradi dell’ordine sacro: diaconato, presbiterato ed episcopato.


Merito del Concilio Vaticano II è quello di aver riscoperto il diaconato. I diaconi sono una ricchezza ormai visibilissima anche nella nostra Chiesa; essi “servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e i suoi sacerdoti” (LG 29a). Sapete che il diaconato può “essere conferito a uomini di matura età anche viventi nel matrimonio, e così pure a giovani idonei, per i quali però deve rimanere ferma la legge del celibato” (LG 29b). Nella nostra Chiesa un diacono è celibe; altri 9 sono sposati. Naturalmente sarebbe bello che anche dei giovani scoprissero la vocazione al diaconato, come segno della gratuità del Vangelo a servizio degli ultimi.


Istruire, santificare e guidare una chiesa particolare è compito del vescovo. Fin dalle sue origini la comunità cristiana ha sentito il bisogno che venissero garantite alcune prerogative apostoliche di fedeltà al Cherigma (predicazione), di presidenza dell’eucaristìa e di governo delle singole chiese. Il Nuovo Testamento rivela già il delicato passaggio dalla generazione degli Apostoli a quella dei presbiteri-vescovi per la trasmissione di queste prerogative. Uno dei primi è Timoteo a cui Paolo raccomanda: “Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti, con l’imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri” (1Tm 4,14), e ancora: ”Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani” (2Tm 1,6). Nella generazione successiva è già chiara la distinzione tra il vescovo, quale successore dell’apostolo e garante della risurrezione, e il collegio dei presbiteri suoi collaboratori, chiamati ad essere uniti al vescovo come “le corde alla cetra” (S. Ignazio di Antiochia). Come dice il Concilio Vaticano II: “I Vescovi assunsero il servizio della comunità con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi, presiedendo in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori” (LG 20). Pregate, cari figli, perché io possa sempre corrispondere a questa delicata chiamata del Signore ed esserne degno, pascendo il gregge di Dio che mi è stato affidato, “sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio” (1Pt 5,2).


La disponibilità di nuovi presbiteri è un punto nodale della crescita della Chiesa in ogni fase storica. Anche la nostra generazione è chiamata a interrogarsi sulla vocazione al sacerdozio ministeriale. Dal Concilio di  Trento in poi la formazione dei futuri sacerdoti (o presbiteri) viene affidata alla fatica educativa del Seminario. Tutti sappiamo che la struttura dei seminari è stata messa a dura prova dopo il Concilio Vaticano II dai numerosi abbandoni ( di seminaristi, ma purtroppo anche di presbiteri) che hanno costretto la Chiesa ad un ripensamento di tutto il cammino verso il sacerdozio, ripensamento ancora in atto. Avere a cuore il seminario non è un fatto sentimentale, non può essere legato allo zelo di un vescovo, ma è semplicemente un dovere ecclesiale. In questa nostra Chiesa di Trapani ho avuto la gioia nei miei quasi otto anni di ministero episcopale di ordinare 12 nuovi presbiteri. Il nostro seminario è composto attualmente da 11 giovani, che vanno dai 20 ai 35 anni. Essi vivono, come sapete, presso un Istituto di suore a Palermo a motivo dello studio presso la Facoltà Teologica di Sicilia che ivi ha sede; ma il nostro seminario si sforza di essere una presenza viva nella diocesi cercando di non perdere il contatto con le parrocchie, realizzando una pastorale vocazionale fatta di incontri, ritiri, proposte di riflessione, e provando a rendere la nostra sede di Trapani, con le sue potenzialità strutturali, un luogo di formazione per i giovani e di incontro a 360 gradi con la cultura contemporanea, seguendo il progetto culturale orientato in senso cristiano proposto dalla Conferenza Episcopale Italiana. Grazie ad un’esperienza embrionale in cui la formazione almeno per i primi due anni è stata affidata alla responsabilità di nostri presbiteri nella sede trapanese (negli anni dal 1990 al 1997 circa), oggi possiamo vantare l’esperienza  di altri sette anni di lavoro in cui la formazione di tutto il sessennio (dall’anno propedeutico al quinto anno di Teologia) è stata curata da educatori scelti dal nostro presbiterio. Siamo pronti per far sedimentare questa esperienza nella stesura di un progetto che raccolga gli itinerari finora portati avanti per il cammino di formazione dei nostri futuri presbiteri. Conto di avere la gioia di presentarlo nel corso di quest’anno vocazionale 2005-2006.


Esorto tutti voi, figli carissimi, e voi presbiteri soprattutto, ad avere cura del seminario, innanzitutto promuovendo a livello parrocchiale una pastorale che annunci l’importanza della vocazione al sacerdozio ministeriale. E’ delicato, lo so, il vostro compito. Si tratta di dare uno sguardo di vero amore al mondo giovanile.

I nodi che incontra la pastorale giovanile, la pastorale familiare o quella vocazionale, devono in qualche modo essere sciolti prima che un giovane possa chiedere di entrare in seminario. E questo non è facile. I giovani vivono una fragilità data dall’età e dal contesto storico in cui vivono: hanno bisogno di proposte spirituali forti e di un accompagnamento amorevole; essi vivono in genere un difficile percorso affettivo e, per il relativismo imperante, sono meno preparati ad accettare il valore della castità e del celibato; in una cultura basata sul denaro e sul successo diventa per loro davvero difficile accogliere e coltivare lo spirito di povertà e servizio; la loro difficoltà spesso consiste anche nell’accettare la Chiesa come istituzione credibile: è importante che facciano esperienza di comunità liberante e gioiosa; ed essi hanno una visione distorta del prete, che per loro è una figura lontana, piena di pregiudizi e di facile moralismo o che tenta di fare “il lavaggio del cervello”: sarebbe auspicabile un nuovo e coraggioso impegno nei luoghi di raduno  dei giovani, soprattutto la scuola, perché questi pregiudizi possano essere smontati e l’annuncio vocazionale possa nascere da una disponibilità sincera e reciproca al confronto.


Nel contesto attuale non ci sembra fuori luogo proporre un progetto educativo anche per ragazzi di scuola superiore che volessero fare un cammino di discernimento guidato dagli educatori del Seminario. La realtà del Seminario Minore può essere riproposta in un cammino di comunità che guardi alle nuove esigenze dei ragazzi senza privarli di quel patrimonio di valori di cui la comunità ecclesiale è depositaria; l’abbiamo chiamata Comunità Emmaus per il discernimento vocazionale e attualmente è composta di due ragazzi; ma abbiamo fiducia nella Grazia del Signore e speriamo che nei prossimi anni questa comunità si possa allargare ad altri ragazzi che vogliono vivere in comunità e capire quale orientamento vocazionale dare alla propria vita.


Abbiamo finora parlato di carismi e ministeri che strutturano la chiesa. Ma non dobbiamo dimenticare il grande ruolo dei battezzati nella società. I loro talenti infatti messi a servizio del bene comune manifestano l’azione della Grazia di Dio e contribuiscono alla santificazione delle realtà secolari.


Ogni lavoro, quando è vissuto come una missione personale per la Gloria di Dio, diventa strumento di santificazione personale e di testimonianza evangelica. Piaghe sociali come la disoccupazione umiliano l’uomo e gli negano la possibilità e il diritto di esprimere tutta la propria capacità creativa.


Alta e nobile è la vocazione a servire la città dell’uomo nell’impegno politico, quando chi lo assume sa mantenere alto il livello etico richiesto a questa delicatissima missione. Diceva don Tonino Bello ai politici:” Per voi politici vivere con pietà deve significare soprattutto onorare l’uomo come icona di Dio. Un invito pressante vorrei rivolgervi, perciò, carissimi amici: privilegiate l’uomo, più che la pietra”. Questa attenzione all’uomo diventa, nel suo senso profondamente cristiano, un’opera di misericordia. Sempre don Tonino: ”Il politico vero, come il Buon Samaritano, ha misericordia del popolo e gli si fa vicino per restituirgli la «mezza vita» che gli hanno tolta e non per aggiungergli la «mezza morte» che gli manca e stenderlo definitivamente”. Sarebbe bello tornare a formare le coscienze dei battezzati alla dottrina sociale della Chiesa, perché la politica, al di là degli schieramenti, privilegi sempre il bene supremo di chi è più debole.


Come sarebbe bello vedere nella scuola tanti insegnanti cattolici che mettano con entusiasmo a servizio dei giovani il nostro patrimonio di cultura, di valori, di spiritualità; senza alterare i contenuti della cultura da trasmettere, ma fecondandoli con il sale della capacità critica e con il lievito dei fatti.


Anche il mondo della comunicazione aspetta una risposta cristiana sempre più professionale e incisiva. Ma di questo ho parlato lungamente nel piano pastorale “Ognuno li sentiva parlare nella propria lingua”.


Valorizziamo anche i talenti artistici che scopriamo nelle nostre comunità, favoriamo tutte le espressioni del talento umano (che è sempre dono di Dio). La Chiesa non venga meno a quella storica missione di essere culla delle arti e impegni le sue risorse (anche economiche) perché la Bellezza vi trovi sempre casa. “Viviamo stagioni crepuscolari. Però, in questa camera ocura della ragione c’è ancora una luce che potrà impressionare la pellicola del buon senso: è la luce della Bellezza” (Tonino Bello).


Una sola ultima parola anche per incoraggiare la pratica dello sport. Praticato nel tempo libero per la salute del corpo e dello spirito è cosa nobilissima. Venga incoraggiato anche chi intende farne una professione; tuttavia riflettiamo sul fatto che anche lo sport attraversa un momento difficile perché il denaro e il facile successo vi hanno trovato terreno fertile. Mi sembra scandaloso quello che accade all’interno di alcuni sport (soprattutto il popolarissimo calcio) che insulta con lo sperpero assurdo di denaro la condizione del povero e di chi, disposto a mettere a disposizione le sue braccia, non trova lavoro. L’attività del Centro Sportivo Italiano, mentre, come ha sempre lodevolmente fatto, promuove la pratica dello sport, attenzioni in tutti i modi la visione etica che lo deve accompagnare perché esso sia gioiosa  manifestazione della corporeità ed espressione leale della competizione e dell’agonismo.



Assenza di rete!

Può capitare che mentre si è impegnati in una conversazione essa improvvisamente si interrompa. Le onde non arrivano più. Sappiamo che l’altro c’è, ma non riusciamo più a comunicare. Così avviene a volte con Dio. Pur avendo risposto alla sua chiamata il cuore non lo sente più. E’ il momento della prova. Essa si manifesta in forme diverse. A volte nasce da fatti esterni: la perdita di una persona cara, una separazione, una situazione economica improvvisamente precaria, una malattia, la rottura di un’amicizia profonda, le incomprensioni all’interno della propria comunità cristiana, lo scandalo del male e della sofferenza innocente, la violenza e la guerra, l’ingiustizia umana. A volte la prova nasce invece da fattori assolutamente inspiegabili, legati alla volontà di Dio stesso che vuole condurre l’anima nella notte oscura per risvegliarla ad una vita di fede pura, che non cerca più alcuna gratificazione, ma che Lo ami per se stesso, anche senza gustarne la presenza con i sensi. In uno di questi momenti Raissa Maritain scriveva a suo marito Jacques:

Sono come un pesce fuori dell’acqua
Che per miracolo impara
A vivere nell’aridità.
Da queste prove si esce sempre più forti e disponibili a seguire Cristo dietro la croce.


Chiamate senza risposta

Ma come dicevamo all’inizio l’uomo ha ricevuto da Dio la libertà. Può anche rifiutare la sua chiamata o rinnegarla dopo averla ricevuta. L’ateismo, l’agnosticismo, l’apostasia sono scelte dell’uomo che per eccesso di razionalismo, per debolezza o per ostinazione non vuole entrare nell’amore di Dio.

Padre nostro
che sei nei cieli,
restaci pure.

Così scriveva Jacques Prevert in una sua poesia. E Dio rispetta questa libertà dell’uomo di non voler avere a che fare con Lui.

Ma la libertà dell’uomo può anche scegliere il male per se stesso. In questo caso le sua azioni sono fatte deliberatamente contro Dio e contro il suo amore manifestato in Cristo Gesù. E’ il mistero dell’iniquità, della tenebra che prende il cuore dell’uomo rivestendosi di luce, è la promessa satanica di dominare il mondo a chi si sottomette alla sua legge di peccato e di morte. A questa chiusura totale dell’uomo corrisponderà il giudizio imperscrutabile di Dio alla fine dei tempi, quando buon grano e zizzania saranno separati, quando agli empi dirà: “Via, lontano da me, maledetti”; e a quelli che hanno amato dirà: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (cf. Mt 25, 31-46).


L’ultima chiamata


E’ questa voce del Signore, Venite benedetti del Padre mio, quella che tutti vorremmo sentire nell’ultima chiamata, certamente la più importante, quando ogni mistero sarà svelato, quando tutto passerà per lasciare regnare solo l’Amore (cf. 1 Cor 13). 

Il pensiero dell’ultima chiamata diventa angoscioso se non è rimesso nel cuore di Dio. Anche Gesù ha provato l’angoscia della morte ma ha rimesso al Padre ogni sua volontà. Questo abbandono l’ha portato alla gioia della risurrezione. Annunciare i novissimi (morte, giudizio, inferno e paradiso) non è fuori moda, perché la morte è il primo dato certo di ogni esistenza e rimuoverla dal vissuto umano come fa la cultura del nostro tempo (che la nasconde o la spettacolarizza) non è da cristiani.  Il fatto che lo Sposo possa giungere nell’ora che non sappiamo è piuttosto esortazione a vivere la pienezza della vita e la gioia soprannaturale dell’attesa.

San Paolo con un candore meraviglioso confessa: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede “(Fil 1, 21-25).

Ascoltate le parole di Santa Teresa d’Avila: “Non può più, mio Dio, questa vostra serva sopportare tanti tormenti come quelli che soffre nel vedersi lontana da voi. Pertanto, se deve ancora vivere, non vuole riposo in questa vita e vi prega di non darglielo. L’anima, mio Dio, vorrebbe sentirsi ormai libera; il mangiare la distrugge, il dormire l’angoscia; vede che il tempo le passa nel trascorrere una vita comoda, mentre nulla può far vivere bene fuori di Te; le pare di vivere contro natura, perché ormai non vorrebbe vivere in sé, ma in Te” (da Libro della mia vita). Non sembra di sentire l’eco delle parole dell’apostolo Paolo? E’ il cammino della santità a portare a questa familiarità gioiosa con la morte, fino a chiamarla “sorella”. Come si spiega altrimenti che preparandosi a morire, ormai cieco e malato, san Francesco possa dettare queste parole? : “Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messer lo frate sole… Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo porta significatione … Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente po’ scappare”.

Cari Figli, riconosciamo la nostra fragilità umana e rimettiamola a Dio, perché anche a noi come al ladrone pentito possa giungere nella nostra ultima ora la voce di Gesù:”Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43).




Chiamare Maria di Nazareth per il visto e le prenotazioni


E in attesa di quel giorno abbiamo un’amica in Cielo che ci farà la prenotazione per l’ultimo viaggio, la Vergine Madre Maria. Chiamare lei in aiuto è speranza certa di soccorso. Sarebbe bello se ciascuno di noi potesse fare proprie le parole di Mons. Tonino Bello, scritte davanti all’icona della Vergine il giorno in cui, dopo la scoperta del suo tumore, capì che doveva ormai prepararsi a morire. Con queste parole chiudiamo il nostro scritto per ricordare a tutti che la chiamata vera del cristiano è la vita eterna e a questa tutti, prima o poi, dobbiamo rispondere. Chiediamo di esserne degni!

“Maria, donna dell’ultima ora, disponici al grande viaggio.
Aiutaci ad allentare gli ormeggi senza paura.
Sbriga tu stessa le pratiche del nostro passaporto.
Se ci sarà il tuo visto, non avremo più nulla da temere alla frontiera.
Aiutaci a saldare, con i segni del pentimento e con la richiesta del perdono, le ultime pendenze nei confronti della giustizia di Dio.
Mettici in regola le carte, insomma, perché giunti alla porta del paradiso, essa si spalanchi al nostro bussare”.






Mi hai sedotto

“Mi hai sedotto, o Signore,
e io mi son lasciato sedurre”.
Un intreccio di amore
è la storia della mia vita.
Mi hai amato da sempre,
mi ami anche se sono peccatore,
non mi respingi dalla tua presenza,
mi chiami a una comunione di vita
così piena e totalizzante
che con verità posso dire:
“Vivo io, ma non sono io che vivo
è Cristo che vive in me”.
Mi cerchi quando mi perdo
tra i meandri del mondo,
mi raggiungi con la tua misericordia
quando, ingrato, ti volto le spalle,
mi attrai a te con vincoli di amore
quando il gelo dell’indifferenza mi attanaglia.
Signore Gesù,
Dio della tenerezza e del perdono,
conduci i miei deboli passi
verso la meta da te sognata per me
fin dall’eternità.
Tu sai ciò che è meglio per me,
tu mi conosci da sempre,
nulla di me è nascosto ai tuoi occhi.
Seducimi, affascinami, attraimi a te,
sii la divina calamita
a cui non possa resistere.
Non mi oppongo alla tua corte,
questa storia d’amore
che tu vuoi scrivere con me e per me
la voglio scrivere anch’io.
Voglio seguirti, Gesù benedetto,
nel tuo percorso di amore
segnato dalla sofferenza, dalla passione,
dalla croce.
Voglio stare nella tua Chiesa
Madre e Maestra,
tuo Mistico Corpo.
Fammi degno, o Gesù,
di vivere alla tua sequela.
Non mi pesa lasciare tutto,
mi basti solo tu,
Bellezza infinita,
eterno Amore.
Gusterò la gioia della comunione
con te vita vera,
sperimenterò la bellezza del tuo perdono,
mi beerò della tua forza,
vivrò del tuo Spirito
sarò pago d’essere con te perché solo tu basti,
solo tu colmi la mia sete d’infinito.
Questo mondo così bello e così tragico
vuol distogliermi da te,
mi raggira con lusinghe,
Signore Gesù, fa che io non cada
nelle sue trame di morte,
che non perda mai di vista
la meta del mio peregrinare sulla terra.
Il fascino del tuo volto
vinca su tutte le suggestioni.
“Il tuo volto, Signore, io cerco
non nascondermi il tuo volto”
Amen.



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Le citazioni sono prese da:

David Maria Turoldo, O sensi miei… Poesie 1948-1988, Rizzoli 1990
Paolo VI, dall’Udienza generale del 29.11.1972
S. Agostino dal De Trinitate in AA.VV, Spirito di Dio, Milano 1987

(Confessioni 10,27)”
Jacques Prevert, Poesie, Parma 1986

 
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