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domenica 01 settembre 2002
PIANO PASTORALE 2002-2003

Ognuno li sentiva parlare la propria lingua (At 2,6b)
Comunicazione e comunione nel cammino della Chiesa di Trapani
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INTRODUZIONE

         Figli diletti della Chiesa di Trapani,
il  vostro spirito possa fortemente sentire tutto  l’affetto e la predilezione che, nella carità di Cristo, il mio cuore desidera comunicare al vostro cuore!
         Se, infatti, io conoscessi tutte le lingue del  mondo, ma non avessi la carità di Cristo, la mia comunicazione sarebbe per voi “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1Cor 13,1). Desidero per me questa capacità di comunicare l’amore del Signore, ma la imploro anche per voi. Insieme, infatti, siamo chiamati a darci testimonianza dell’Amore di Cristo, a comunicarLo gli uni agli altri, perché, al di sopra di tutto, davvero diventi tra noi “il vincolo della perfezione” (Col 3,14).


 

1. La Pentecoste, icona della comunicazione

         Cosa c’insegna la Sacra Scrittura? Che solo quando l’Amore di Gesù e la sua comunicazione formano quasi una sola cosa, quando quasi s’identificano nella persona che lo comunica, può avvenire il miracolo della conversione personale e della comunione tra fratelli che credono in Cristo Gesù.
         Così avvenne il giorno di Pentecoste.
         Gli Apostoli furono “tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue” (At 2,4). In quella pienezza del dono dello Spirito, essi   comunicarono al mondo la Parola di salvezza, l’annuncio della risurrezione di Cristo. La loro comunicazione fu così piena di quell’Amore che “ognuno li sentiva parlare la propria lingua” (At 2,6). E Pietro, uscito dal cenacolo per parlare a quegli uomini, fu un canale talmente perfetto  della comunicazione divina, che le sue parole furono strumento immediato di conversione.   Tutti, infatti, a quell’annuncio, “si sentirono  trafiggere il cuore e chiesero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli che cosa dobbiamo fare?»”. E subito, esortati al pentimento, ricevettero il dono del battesimo e formarono la prima comunità   cristiana (cf. At 2,37s).


 

2. La Pentecoste e la prima comunità

         Ci sembra opportuno evidenziare la stretta relazione che san Luca stabilisce tra l’evento della Pentecoste nel cenacolo e il costituirsi della prima comunità cristiana (At 2).
         La descrizione di quella prima comunità, generata dalla primizia del dono dello Spirito, rimane per noi un punto di riferimento essenziale. Le sue caratteristiche, al di là delle contingenti realizzazioni storiche, che possono essere state più o meno fedeli a quell’ideale, rappresentano, per così dire, gli elementi visibili, e quindi costitutivi, della sua struttura. Capiamo così che da una feconda comunicazione del Vangelo nasce la comunione; e questa, in quella comunità primitiva, ha cominciato ad esprimersi con       l’assiduità nell’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, con l’unione fraterna, con la celebrazione dell’Eucaristia. Sono quei tre aspetti che noi, secondo lo stesso ordine, siamo abituati a chiamare Catechesi (in sintonia col Magistero dei successori degli apostoli, cioè i Vescovi e il Papa), Carità e Liturgia.
         E’ guardando a quel modello che possiamo affrontare con serenità la situazione attuale, nella quale alcuni battezzati sono rimasti ‘assidui’ come quelli degli Atti degli Apostoli, altri si sono allontanati restando, per così dire, ‘alla soglia’ della Chiesa, altri ancora sono ritornati alla  comunità eucaristica domenicale portando il vissuto della loro storia personale, con la sua ricchezza, ma, a volte, pure con i suoi fallimenti e le sue contraddizioni. E’ all’interno di questa dialettica tra la vita interna della comunità ecclesiale e il suo dialogo esterno con il mondo in rapida  trasformazione, che si gioca il nuovo, insostituibile ruolo della parrocchia e del suo parroco, chiamato anch’egli al supremo sforzo di una nuova visione delle cose, e di tutti i laici impegnati con lui nella ‘nuova’ evangelizzazione.
         Chiamati alla comunione tra noi, non ne facciamo un tesoro geloso, ma la riteniamo un dono da comunicare a tutti, come il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, nella Pentecoste, hanno comunicato la loro Comunione (lo Spirito Santo!), ed è nata la Chiesa!


 

3. La comunione, dono da comunicare

         Abbiamo in cuore questa notizia risolutiva per le sorti del mondo, il Vangelo di Cristo risorto: eppure molti ancora non la conoscono, o non l’hanno ricevuta con chiarezza, o sono stati scandalizzati dalla debole testimonianza di chi gliel’ha annunciata!
         Se la comunione che diciamo di vivere tra noi non si comunica, non contagia gli uomini e le donne del nostro tempo, abbiamo allora il dovere di interrogarci e fare un esame di coscienza. La difficoltà nel comunicare il Vangelo all’uomo di oggi è innanzitutto, da parte nostra, una mancanza d’Amore.
         Se dinanzi a tutti gli strumenti che oggi consentono all’uomo di comunicare, di far    entrare in relazione le creature e di far passare tra loro il dono della parola, noi siamo ancora  diffidenti e indecisi (e mi pare che lo siamo) forse è perché non siamo ancora del tutto riempiti  della Buona Notizia che diciamo di voler comunicare; vuol dire che la Parola, quella che salva, non è al primo posto nella nostra vita; vuol dire che non sentiamo l’urgenza di farne partecipi gli altri, come, invece, fece Pietro, pieno di Spirito Santo, il giorno di Pentecoste e come san Paolo esorta il caro Timoteo a fare con urgenza: ”Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna” (2Tm 4,2).
         Il cuore della comunicazione del Vangelo dev’essere dunque “l’Amore che ci spinge” (Cf. 2Cor 5,14). “La piena comunicazione - dice l’istruzione pastorale Communio et progressio - comporta la vera donazione di se stessi sotto la spinta dell’amore” (n. 11). Guai a noi, dico allora, parafrasando San Paolo (1Cor 9,16), se non ci impegnassimo a comunicare la comunione!
         Davanti a noi abbiamo il modello perfetto della comunicazione eterna d’Amore tra le Persone divine, un solo Dio nella perfetta comunione della Santa Trinità, dalla cui Vita nasciamo alla vera vita.


 

4. Nel cenacolo una perenne Pentecoste

         Dunque, figli dilettissimi, restiamo nel cenacolo per attingere il dono dello Spirito e poi usciamo a dare il buon annunzio del Vangelo. Il Piano Pastorale che avete iniziato a leggere non annulla i precedenti, né può essere l’unica parola per il nostro impegno pastorale. E’ utile però,  attraverso di esso, dare una direzione al nostro impegno per non disperdere le nostre energie e conservare l’unità attorno all’autorità dell’Apostolo, servizio che in mezzo a voi sono chiamato ad esercitare in forza della successione nell’episcopato.
         Siamo in perfetta sintonia con il cammino della Chiesa Italiana, secondo le indicazioni di  tutto l’Episcopato espresse nel documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Proprio nell’appendice a quel documento, quasi come in una ‘agenda pastorale’, noi vescovi ci  siamo ripromessi di approfondire il tema scottante della “trasmissione della fede” alle  nuove generazioni con la dovuta attenzione a non distruggere il patrimonio del passato, di “riflettere sul valore della comunicazione sociale” e di “approfondire alcuni sentieri particolarmente significativi della comunicazione (arte, nuove   tecnologie,…)”.
         Questo ci prefiggiamo, scesi dal Tabor   pieni di speranza, dopo la sosta nella casa di    Zaccheo per scoprire il nostro bisogno di conversione, ed essendo entrati nel cenacolo per     riscoprire l’impegno della parrocchia attorno al memoriale dell’eucaristia e della carità.
         Accoglienza, ascolto, annuncio erano le tre parole-guida dell’anno che è trascorso.    Ripartiamo da esse per aggiungervi l’inseparabile  esigenza della testimonianza e del servizio, ognuno secondo i doni ricevuti, tutti per dare maggior gloria al nostro Dio!

QUADRO I

DA BABELE A GERUSALEMME: Il cammino  della Comunione

5. Comunicare  per essere in comunione!

         Cominciamo facendo lo sforzo di capire qualcosa in più della comunicazione umana per cogliere, poi, l’ottica della rivelazione biblica.
         Comunicare, ci viene detto, significa “render comune, far partecipi gli altri di qualcosa” (De Mauro). La comunicazione è, pertanto, la    possibilità data all’uomo, quindi anche a noi, di uscire dalla nostra solitudine e di sperimentare d’esser nati e di poter vivere per qualcun altro.
         Fin da bambini tutti abbiamo cercato di comunicare ai nostri genitori alcuni essenziali   bisogni materiali (mangiare, bere, dormire), ma, ben presto, abbiamo anche avvertito l’altra    necessità di esprimere fuori da noi stessi i bisogni che appartengono alla sfera del nostro cuore (idee, amicizia, amore, fede). Questa comunicazione di noi stessi è un’operazione molto complessa. Le sue forme, infatti, sono tante, perché tanti sono i      linguaggi umani. Oggi le scienze umane approfondiscono questi linguaggi, detti “non verbali”.
         Ma la forma originaria attraverso cui noi comunichiamo è, certamente, la parola. Tutti i  linguaggi, infatti, provengono e tendono all’espressione verbale. La parola produce una comunicazione consapevole, in cui tutte le facoltà umane (volontà, intelletto, memoria e immaginazione) trovano la loro piena espressione. Parlare, leggere, scrivere sono atti umani in cui la parola è al centro dell’incontro tra le persone, tra le loro idee, i loro sentimenti. Ma, poiché “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45), come la parola può costruire relazioni pacifiche e serene, così, al contrario, essa può definire i sentimenti di odio, rancore, disprezzo che dividono gli esseri umani gli uni dagli altri. “Benedizione” e    “maledizione” indicano questa doppia possibilità della parola. “E’ dalla stessa bocca che esce  benedizione e maledizione” annota amaramente san Giacomo (3,10). La parola può diventare   pertanto una terribile arma da scagliare addosso agli altri.
         Il controllo delle parole, inoltre, ha sempre un certo riferimento all’esercizio del potere. Il dibattito attorno ad una parola nasconde a volte squallidi interessi di parte e non c’è regime  totalitario che non abbia creato le sue parole, togliendo alla parola la sua libertà. L’abitudine di far passare ad ogni costo la propria parola, quando non è motivata dal sincero desiderio della verità, può essere un atto di prevaricazione.


 

6. Babele: il  peccato impedisce la comunicazione

         Controllare e conoscere tutte le parole, è, infatti, il grande desiderio dell’uomo di ogni tempo, ma, a causa del peccato, anche la grande   tentazione di servirsene per dominare gli altri senza nessun riferimento a Dio. La Sacra Scrittura ci dice che c’era un tempo in cui “tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” (Gn 11,1).
         La costruzione della torre di Babele è il tentativo umano di escludere Dio dal proprio  orizzonte (vedi Gn 11,1-9). Dicono gli uomini: ”Costruiamoci una città e una torre e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (v. 4). “Farsi un nome” significa prendere se stessi come unico punto di riferimento togliendo a Dio la sua parola sul destino dell’uomo. Significa interrompere la comunicazione con Lui. Perciò Dio ha confuso le parole dell’uomo nella diversità delle lingue.
         Con questo racconto di Babele la Sacra Scrittura interpreta il motivo per cui l’uomo,    volendo farsi come dio, vorrebbe essere padrone della parola: egli sa che essa appartiene a Dio fin dal principio. Dice infatti l’Evangelista Giovanni che “in principio era la Parola, e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio”. Dio pronuncia questa Parola, a Lui coeterna, nell’atto della creazione: «Sia la luce!» Ed ecco la luce! In Dio la parola e  l’atto sono la stessa cosa, perciò Egli parla e tutto  viene creato. Egli si comunica al mondo attraverso la sua Parola. Nel momento in cui Dio consegna all’uomo le creature gli concede di partecipare del suo atto creativo donandogli la libertà di inventare le parole per dar loro un nome: ”l’uomo - infatti - impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche“ (Gn 2,20).
         La confusione delle parole nella diversità delle lingue esprime, come abbiamo già          accennato, la condizione di peccato dell’uomo, che ha voluto spezzare il suo rapporto d’Amore con Dio e con la sua creazione. Dio però non l’ha  abbandonato e nel momento (la pienezza dei   tempi!), in cui decide di ristabilire la comunione con l’uomo, in Gesù comunica definitivamente la sua Parola. Perciò “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,1s). “E la Parola si fece carne - ci dice san Giovanni - e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre” (Gv 1,14). E’ Gesù questa Parola, Lui il Verbo di Dio che s’è fatto carne.
         Tutta la vita terrena di Gesù, in parole ed opere, comunica la tenerezza del Padre, rivela la sua misericordia, ristabilisce la sua alleanza con l’uomo. In Gesù, vero Dio e vero uomo, l’uomo e Dio non potranno più essere separati. L’uomo, nella sua libertà, può allontanarsi, ma Dio, nella rivelazione del suo Figlio, si dichiara sempre pronto a riprendere con l’uomo il cammino della vera vita.

QUADRO II

EMMAUS: Gesù, perfetto comunicatore

7.l’icona della comunicazione: Emmaus

         “Durante l’esistenza terrena Cristo si è rivelato perfetto comunicatore”, dice la          Communio et progressio. In effetti, se leggiamo il Vangelo, troviamo parole ancora oggi capaci di sorprendere per la loro forza comunicativa e per le immagini indimenticabili suscitate (pensiamo alle parabole o ai ‘detti’ folgoranti di Gesù). Ciò che colpisce nel metodo di comunicazione di Gesù è la sua imparzialità; egli proclama “a tutti indistintamente l’annuncio divino di salvezza con forza e con perseveranza e adattandosi al loro modo di parlare e alla loro mentalità” (Communio et progressio, n. 11). Ma c’è un capolavoro della comunicazione di Gesù: è il suo dialogo con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), dialogo  esemplare per la trasmissione della fede in ogni tempo. Questo brano sintetizza il nostro invito a fare dell’accoglienza e dell’ascolto la condizione necessaria per ogni annuncio, coscienti che da questa comunicazione scaturisce il dono della comunione.


 

8. Le tappe della comunicazione

         Due discepoli erano in cammino e conversavano tra loro. Non era una conversazione tranquilla: i loro cuori erano agitati. il testo di Luca, infatti, letteralmente, dice che “essi si      scagliavano addosso le parole”. “Gesù si accostò e camminava con loro”. Per quanto tempo? Il testo non lo dice, anzi il verbo usato fa pensare ad un lungo tratto fatto da Gesù con loro senza che rivolgesse loro alcuna parola. Gesù rispetta profondamente i tempi dell’uomo, non fa il moralista rimproverando ai due discepoli che si stanno comportando male, che si sono chiusi agli altri o li stanno disturbando coi loro discorsi, ma aspetta. Questo suo silenzio, tuttavia, ha già   ottenuto un risultato fondamentale per la    comunicazione: l’accoglienza. Il cammino fatto insieme, mentre altri hanno preferito cambiare compagnia, è diventato già un patrimonio  comune, un’accoglienza vicendevole che consente a Gesù di intervenire in quella conversazione. Ci aspetteremmo da Gesù l’annuncio della sua risurrezione, magari una sfolgorante teofanìa. Invece Gesù pone una domanda: “Che sono   questi discorsi che state facendo tra voi durante il cammino?” (v.17). E’ una domanda che tocca  con delicatezza il problema discusso dai due         discepoli, ma che, nella sua formulazione, li lascia liberi di scegliere il livello della risposta. Sono loro a questo punto che decidono di entrare in una relazione più profonda con il compagno di viaggio, confidandogli interamente la loro tristezza. E a questo punto cambia anche qualcosa nella loro relazione: la tensione che si scagliavano l’uno addosso all’altro trova uno sbocco nella possibilità di raccontare a qualcun altro la loro amarezza. E Gesù li ascolta, senza mai interromperli. L’ascolto di Gesù dura per  quasi metà del brano lucano. La cosa sorprendente è che la risposta di Gesù è già tutta contenuta nel racconto che fanno i due discepoli. Essi hanno già tutti gli elementi della fede, manca loro qualcuno che interpreti la loro storia alla luce della storia della salvezza e della rivelazione divina; manca loro, cioè, l’annuncio. E’ Gesù a darlo, stavolta con grande autorità, con fermezza d’espressione, senza tentennamenti o aggiustamenti per far loro piacere: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (v.25). Ma  alla durezza, Gesù unisce la pazienza. Segue una lunga catechesi che consente ai due discepoli di leggere tutta la storia biblica nel suo orientamento a Cristo. Non una lezione dottrinale, ma una lettura del presente alla luce del passato: ”E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v.27). L’annuncio è dunque un percorso che attraverso la conoscenza delle Scritture introduce alla conoscenza di Cristo. E’ attraverso questa paziente comunicazione del Vangelo, come dicevamo anche nella nostra introduzione, che Gesù apre ai due discepoli la possibilità di una comunione più profonda con Lui. Ma anche in questo passaggio li rispetta, non li costringe a stare con Lui, anzi, dice san Luca, “egli fece come se dovesse andare più lontano” (v. 28b). Solo dinanzi alla loro esplicita richiesta di restare con lui “egli entrò per rimanere con loro” (v. 29b). Il significato eucaristico che Luca dà a quel loro incontro, svoltosi attorno ad una tavola per mangiare il pane, completa l’esemplarità di un percorso di fede che è faticoso e graduale.
         La comunione eucaristica è l’approdo di un cammino di fede in cui la comunicazione del  Vangelo permette una graduale conoscenza di Gesù, liberamente accolta dall’uomo di ogni tempo. E’ solo una suggestione, ma certamente ci colpisce, il fatto che, in latino, la comunione dei fedeli venga chiamata ‘communicatio (comunicazione!) altari’.
         La ‘comunicazione’ con Gesù nell’eucaristia genera la comunione tra noi!


LA PENTECOSTE: Nel Cenacolo la comunione

9. Pentecoste, la comunione si fa comunicazione

         Il giorno di Pentecoste è crollata la torre di Babele. Tutti hanno sentito nella propria lingua l’annuncio della salvezza. Nel dono dello Spirito Santo, l’Amore di Dio è stato effuso nel cuore dei credenti e la Trinità vi ha preso dimora. Dio è Amore, e “perché è Amore è Trinità” (Chiara Lubich). Donandoci se stesso Dio ha mostrato di non essere geloso della Comunione che Egli è in se stesso. Nella Trinità, infatti, le distinzioni      riposano sull’unità dell’Amore in cui i Tre “si compiacciono insieme” (Evdokimov) e si fondano sull’accoglienza eterna l’Uno dell’Altro, Padre Figlio e Spirito Santo.
         Ora, Dio ha partecipato a noi la sua  Comunione attraverso il suo Figlio Crocifisso, il quale “non è venuto per i sani, ma per i malati” (Cf. Lc 5,31s): con la sua risurrezione Gesù ha infranto le catene del peccato e della morte. Lo Spirito Santo, effuso nel cuore dei battezzati, “completa nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Cf. Col 1,24), perciò “se un membro soffre tutti soffrono” (1Cor 12,26). E’ questo, propriamente, il “martirio” possibile ad ogni cristiano di ogni epoca, cioè “la sua partecipazione alle sofferenze di Cristo per potersi rallegrare ed esultare nella rivelazione della sua gloria” (Cf. 1Pt 4,13). La parola testimonianza è semplicemente la traduzione della parola “martirio” e nasce, dunque, da uno sguardo continuamente rivolto al Getsemani, dove Cristo accetta obbediente la volontà del Padre. Un vero testimone del Vangelo è anche un perfetto comunicatore del Vangelo, ‘una predica vivente’! Un giorno san Francesco disse ai suoi frati che quel giorno avrebbero dovuto predicare. Quindi li fece girare tutto il giorno per le strade di Assisi. A sera disse loro che avevano ben predicato. Il testimone che porta in sé Cristo, infatti, lo comunica con la sua stessa presenza: la sua persona fa trasparire il suo  viaggio interiore con Lui!
         L’incontro personale con Dio nella preghiera, la meditazione e la vita della sua    Parola, la frequentazione di luoghi di vita contemplativa, l’incontro pasquale con Gesù   nell’eucaristia, sono vie maestre per il viaggio interiore di chi vuole testimoniare al mondo il mistero della comunione con Cristo Gesù, e in Lui, con i fratelli.


 

10. Dal Cenacolo la comunione

         Da quanto detto scaturisce che la  comunione nella Chiesa, essendo a immagine di quella trinitaria, è innanzitutto un dono di presenza per quelli che soffrono. E’ questa presenza accanto a loro che stabilisce, di volta in volta, le urgenze dell’amore verso il prossimo. Noi possiamo indicare alcune priorità, ma la povertà e il dolore possono essere lontani dal nostro sguardo immediato; e quindi la comunità cristiana deve imparare a riconoscere il passo di chi porta la sua croce quotidiana, per farglisi   compagna di viaggio. Nella sofferenza dei fratelli, solidali con quelli che patiscono, i cristiani imparano l’obbedienza alla volontà di Dio (Cf. Eb 5,8).
         I malati sono certamente la porzione   eletta del popolo di Dio, negli ospedali e nelle case. Auspichiamo la crescita di tutte le forme di sostegno e conforto nei loro confronti. Una particolare attenzione dovrebbe essere rivolta ai loro familiari, i quali, impegnati nell’aiuto ai loro cari, spesso si sentono trascurati, rimangono soli, e diventano anche vulnerabili nella loro vita      spirituale.
         Le malattie dell’anima poi, spesso poco visibili, costituiscono un male oscuro del nostro tempo. Il diffondersi della depressione e l’aumento dei suicidi interpellano la nostra coscienza di cristiani a uscire dai facili moralismi. Tanti fratelli, prima di ricevere l’annunzio di Cristo, hanno bisogno di un lungo tempo di accoglienza e di ascolto.
         I carcerati ci chiedono l’amore di “non giudicarli per non essere giudicati” (Cf. Lc 6,37) e la capacità di proporre il Vangelo come via di   riscatto per tutti.
         I poveri sono sempre con noi (Cf. Mt 26,11). In ogni epoca sono per la Chiesa un richiamo all’essenzialità e un invito profetico alla conversione. Alla povertà materiale spesso si unisce quella morale e spirituale. Riportare alla dignità del lavoro i disoccupati, e tra questi tanti immigrati, è un impegno che ci unisce a tutti gli uomini di buona volontà.
         Molto importante è, per questo motivo, il lavoro della Caritas. Un raccordo sempre più    efficace tra Caritas diocesana e le caritas   parrocchiali o interparrocchiali, è urgente per quella sinergia della carità che va a fondo nei   problemi, rispetta la dignità di ciascuno e annuncia, “non con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (Cf. 1Gv 3,18), a quanti sono poveri di qualcosa, di non disperare, perchè “di essi è il regno di Dio” (Lc 6,20).

QUADRO IV

DALLA TRINITA’ALLA PENTECOSTE
Nel cenacolo oggi: la ‘nuova’ parrocchia

11. Comunione e ‘nuova’ parrocchia nel terzo millennio

         La comunione, dunque, è dono della Trinità, da cui la Chiesa è nata il giorno di Pentecoste. Gli Atti degli Apostoli ci presentano quella comunità dei primi convertiti come tutta assidua all’insegnamento degli apostoli, alla comunione fraterna, alla frazione del pane e alla preghiera.
         Le comunità di origine apostolica, che pure avrebbero fecondato con il sangue dei primi   martiri la ‘plantatio’ delle Chiese, vivevano già la tensione tra essere e dover essere. Le Lettere di San Paolo ci presentano le forti tensioni presenti nelle comunità e le Lettere giovanne e denunciano già il pericolo di separazioni ed eresie a causa di anticristi senza scrupoli. Anche oggi questa tensione tra essere e dover essere presenta una complessità coerente con i tempi che viviamo.
         La nostra realtà sociale cambia rapidamente. Si diffondono l’agnosticismo e l’indifferenza religiosa. Il pluralismo confessionale e religioso interpella ogni giorno la credibilità della Chiesa. All’interno di questa realtà così complessa si  acuisce la distinzione tra battezzati che hanno acquisito una forte coscienza ecclesiale, e quindi sono ‘assidui’ come quelli degli Atti degli Apostoli, e battezzati che vivono una forte discontinuità dell’appartenenza ecclesiale relegandola ad alcuni momenti della vita (nascita, matrimonio, morte).
         I primi formano la comunità eucaristica domenicale, i secondi la comunità dei battezzati che chiamiamo ‘della soglia’, in quanto si pongono, per così dire, alla ‘soglia’ della comunità ecclesiale, senza attraversare l’Amore teologale di Cristo, che è la Porta per entrarvi.
         E’ importante che tutti insieme, io vostro vescovo, i presbiteri e tutta la comunità         ecclesiale, prendiamo coscienza di questi vari livelli di incarnazione storica degli elementi     costitutivi della Chiesa e, distinguendoli senza separarli, per non creare una pericolosa rottura tra ‘chiesa dei santi’ e ‘chiesa dei peccatori’, agiamo pastoralmente nella direzione dell’unità cosciente di tutti i battezzati.
         Quale il luogo privilegiato dentro cui far entrare e far interagire questi vari livelli di    appartenenza ecclesiale? Noi crediamo, e lo abbiamo già espresso nel piano pastorale         dell’anno scorso, che la parrocchia possa assolvere a questo ruolo ancora oggi, all’inizio del terzo millennio. Tuttavia, rinnovandosi!


 

12. La parrocchia, realtà da rinnovare

         Il rinnovamento, nella Chiesa, ha sempre bisogno di gesti concreti. E’ realmente un       cambiamento di mentalità e quindi richiede uno sforzo enorme da parte di tutti, e a volte anche dei passaggi bruschi.
         Ecclesia semper reformanda!
         Ci sono momenti della storia in cui “non si mette vino nuovo in otri vecchi” (Mt 9,17).    Alcune cose vanno realmente cambiate; ciò che non cambia è il ‘buon deposito’ della Tradizione, dal cui tesoro, come lo scriba del Vangelo, dobbiamo “saper trarre cose vecchie e cose   nuove” (Cf. Mt 13,52). Allora potremo chiamare ‘nuova’ la parrocchia, se realmente saprà  rinnovarsi.


 

13. la parrocchia, le  parrocchie e la diocesi

         La ‘nuova’ parrocchia è una comunità di discepoli, che, pur nella mobilità delle situazioni familiari, si organizza in un territorio.
         Essa non è un’isola, ma interagisce con le altre comunità vicine, nell’unione fraterna e nel vincolo della carità. L’organizzazione delle  parrocchie in Interparrocchialità o Unità Pastorali vuole essere uno strumento di comunione, e non occasione di scandalo per i fedeli, qualora  vedessero i presbiteri incapaci di lavorare insieme. Le iniziative comuni tra parrocchie permettono, infatti, il confronto di esperienze diverse e quella comunicazione edificante della vita cristiana, che fa “portare agli uni i pesi degli altri” (Gal 6,2), e fa sperimentare la comunione soprannaturale su cui si fonda la cattolicità della Chiesa.
 
         L’insegnamento e la presenza del vescovo costituiscono il perno per l’unità di tutte le realtà parrocchiali (interparrocchialità e unità pastorali). “Dove c’è il vescovo, lì c’è la chiesa!” (San Cipriano).
         Andando nelle parrocchie mi accorgo del gran bisogno di comunione e di unità presente nel popolo di Dio, e della sete di conoscenza della Chiesa che esso sente. Sarebbe auspicabile riprendere in mano i documenti del Concilio Vaticano II, e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa, la Lumen gentium, per impostare nella catechesi una corretta ecclesiologia.


 

14. la parrocchia, spazio di libertà  e di relazione

         La ‘nuova’ parrocchia non deve essere una struttura rigida, ma deve essere capace di aprire uno spazio di relazionalità libera, in cui tutti si sentano accolti.
         Possiamo pensarla come una serie di cerchi concentrici: si va da quello esterno dei non battezzati o dei battezzati ‘della soglia’ al cuore della comunità, cioè coloro che vivono   l’assemblea domenicale, e, tra questi, quelli che hanno avuto affidato un servizio ministeriale     istituito oppure ‘di fatto’. Pensiamo ad un sasso buttato nello stagno: la parrocchia dovrebbe    rappresentare questo movimento concentrico che dal suo centro di irradiazione si allarga nella realtà, a volte stagnante, del territorio. Da stazione di servizi, insomma, a stazione di partenza missionaria per il territorio. 
         In quest’ottica vanno ripensati gli spazi e gli orari parrocchiali, lasciando ai laici la possibilità di esprimere il proprio servizio in una piena corresponsabilità con il parroco.
         Questa presenza laicale diventa importante anche per il rapporto che, all’interno di un    territorio, la parrocchia deve saper tenere con le realtà educative e sociali e con le Istituzioni civili e amministrative (Cf. CVMC 56-62).
         Sogno questa parrocchia ‘nuova’ libera da schemi e stereotipi; capace di guardare alla  differenza come una ricchezza e alla diversità come un dono; piena di fantasia nel trovare nuove forme per comunicare il Vangelo di sempre in un mondo che cambia.


 

15. la parrocchia, casa di tutti i battezzati

         I battezzati ‘della soglia’. Come agire con loro? La grande tentazione è di escluderli. Ma possiamo noi esercitare, al posto di Dio, un tale giudizio su questi fratelli? Essi appartengono a diverse categorie sociali. Alcuni si sono allontanati per pura superficialità, perché presi dalla ‘spina’ delle ricchezze e dai piaceri della vita, oppure perché soffocati dal lavoro come unica ragione di vita; altri perché si sono sentiti lontani dalle indicazioni etiche della Chiesa, come i   divorziati risposati o gli omosessuali; alcuni    ancora perché, essendo fragili nella volontà, sono caduti nel vizio della droga, dell’alcool, del sesso; altri per motivi ideologici o per dubbi dottrinali, o perché sono rimasti scandalizzati, per debolezza di fede, da comportamenti di uomini e donne di chiesa; altri, infine, perché hanno rinnegato Cristo, hanno abbracciato altre religioni, hanno aderito a sette contrarie alla Chiesa, o sono caduti nella superstizione a vantaggio economico di maghi e fattucchieri.
         Questi battezzati sono il popolo di Dio, coloro per i quali Gesù ha versato il suo sangue. Molti di loro, ‘sulla soglia’, aspettano d’essere invitati a rientrare.
         I loro figli vengono portati, magari  distrattamente, alle nostre catechesi di iniziazione cristiana. Fare i moralisti con loro significa acuire la nostra distanza. Tra essi, molti di buona volontà sono delusi come i discepoli di Emmaus, e hanno bisogno di quella pedagogia graduale che    abbiamo visto in Gesù con quei discepoli. La pazienza pastorale è via difficile, ma feconda di risposte. Poiché abbiamo ancora la possibilità di incontrarli dobbiamo cercare i momenti adatti per ascoltarli, andare al centro della loro situazione, conoscere le loro sofferenze.
         Il servizio pastorale dei laici è prezioso per riportare questi fratelli alle domande sulla fede, per mostrar loro un volto della chiesa diverso da quello che si sono costruiti; e consolarli con    quella consolazione con cui noi stessi siamo    consolati da Dio in Cristo Gesù (Cf. 2 Cor 1,3ss).
         Il dialogo fraterno con il sacerdote e i sacramenti ‘medicinali’ della riconciliazione o dell’unzione possono essere doni preziosi per   gettare sulle loro ferite fisiche, psichiche o morali, il balsamo della misericordia e il vino della speranza.
         La pratica dei “sacramentali” (la benedizione, in primo luogo) può rivelarsi valida per dire quella parola che, provenendo da Dio, può cambiare il cuore di qualunque uomo.


 

16. la parrocchia e i giovani

         Potremmo chiamare battezzati ‘della soglia’ tutti i giovani (e sono la maggior parte) che, ricevuti i sacramenti dell’iniziazione cristiana, hanno fatto della cresima il “sacramento  dell’addio” (Cf. Riconciliati…, p.40). Invito tutta la realtà ecclesiale, presbiteri e laici, a prendere a cuore la situazione dei giovani; essi hanno assoluto bisogno di punti di riferimento e sono la generazione a cui dobbiamo trasmettere la notizia della fede, senza metterli, però, dinanzi al muro dei nostri pregiudizi. Dinanzi a nostre      proposte libere da tali pregiudizi, ho visto la loro stupita e gioiosa adesione, e ho colto, in tanti di loro, la profonda sincerità del cuore.
         Non facciamogli subito ‘la predica’, ma ascoltiamoli!
         Sono da favorire tutte le forme associative giovanili ecclesiali o anche semplicemente di ispirazione cristiana, chiamate ad assumere la  modernità in tutte le sue enormi potenzialità espressive. Ricreando contesti validi di aggregazione (sport, teatro, cinema, o altre attività  culturali e ricreative) sarà più facile condurre i  giovani ad esperienze spirituali più forti, ad un incontro serio e motivato con la Parola di Dio.


 

17. la parrocchia, cenacolo della comunità

         La comunità eucaristica è la comunità cosciente d’esser nata dalla Trinità e di vivere in essa l’unione fraterna. Per questo è più grande la sua responsabilità. Essendo costituita da    uomini e donne “santi per il battesimo, ma     sempre bisognosi di purificazione” (Cf. Lumen gentium, n. 8) la comunità eucaristica è chiamata a vigilare perché il dono della comunione non venga intaccato dal tarlo del peccato.
         Il peccato attenta sempre alla comunione, in quanto è rifiuto del dono d’amore e allontana dal modello trinitario delle relazioni, creando   divisioni, fratture, sofferenze.
         Quando questo accade all’interno di una comunità, “tutti sono chiamati a spartirsi il dolore della divisione e a farsi carico di continuare a ricercare la comunione” (Cf. Riconciliati…verso    Gerusalemme, p. 32).
         La comunione si ricostituisce attraverso il sincero pentimento e la riconciliazione. Questa deve essere innanzitutto un’attitudine della comunità eucaristica: riconoscere, in ogni momento, il proprio peccato di omissione in   ordine alla comunione e alla testimonianza.   Questo richiede un vero discernimento ed è   “fatica, rinuncia, sacrificio, croce” (Ibidem). In ogni riconciliazione, infatti, tra il perdono ricevuto da Dio e la festa con la comunità, resta un momento di tensione che richiede, da un punto di vista umano e psicologico, la risoluzione e lo   scioglimento di tutti i conflitti che la situazione di peccato o la divisione avevano determinato.
         La celebrazione del sacramento della Riconciliazione ricostruisce e ricostituisce la  comunione spezzata, in quanto rende nuovamente tralci inseriti in Cristo. Nella comunicazione  d’amore con Lui entriamo nuovamente nella vita intima della Trinità che è comunicazione eterna d’Amore.
         Nella vita di comunione grande importanza riveste il modello di Maria di        Nazareth. La sua maternità richiama tutti, presbitero e comunità, a rivestirsi di quei           sentimenti di tenerezza che sono propri della sensibilità femminile: la capacità di accogliere  senza chiedere ragioni; la pazienza; il silenzio  della parola, che comunica di più e oltre il semplice parlare; il silenzio dell’azione, ossia quella capacità di sacrificarsi e offrirsi senza darlo a  vedere, né rivendicarlo.


 

18. Gli organismi di partecipazione

tessono comunione
         La comunità eucaristica possiede alcuni strumenti preziosi a servizio della comunione. L’ho scritto in tutti i piani pastorali e lo ribadisco: il  consiglio pastorale e il consiglio per gli affari    economici sono cinghie di trasmissione della pastorale della diocesi a tutto vantaggiodell’incarnazione del Vangelo nel territorio di una parrocchia (Cf. Riconciliati…verso Gerusalemme, p. 58).


 

19. la parrocchia, casa che accoglie

         Cosa succede quando un battezzato che si era allontanato, fa il suo ritorno dalla ‘soglia’ alla comunità eucaristica? Ponevamo questa possibilità già in altro contesto (Cf. Come ho fatto io…, p. 19). Ebbene, proprio questo ritorno spesse   volte è un momento di tensione; questo fratello anziché essere visto come un dono, sembra un intruso e ogni suo gesto viene letto come un’ingerenza nell’ordine della comunità. Ricordiamoci allora che impostare trinitariamente le relazioni significa vivere l’unità della comunione nel rispetto dei singoli percorsi esistenziali, perché “nella vita trinitaria, ogni Persona è se stessa  facendo essere l’Altra” (Enrique Cambòn).
         Allora sul modello della casa-cenacolo di Gerusalemme la comunità eucaristica può     impegnarsi a fare cenacolo, ovvero a favorire al suo interno la nascita di realtà più piccole, non tanto o non soltanto gruppi di famiglie, quanto piuttosto gruppi-famiglia in cui ognuno secondo la propria condizione possa sottoporsi al giudizio della Parola e aprirsi alla dimensione della carità vicendevole. In atto ci sono diversi modelli     applicativi che possono essere ulteriormente mediati nelle singole situazioni: CEB, cursillos,   cellule, gruppi di lettura biblica.
         Gruppi e movimenti all’interno della comunità eucaristica, pur capaci di meravigliosa accoglienza, devono ricercare anche un linguaggio comune perché le stesse cose, dette con parole diverse, non creino confusione o separazione in questi ‘neofiti’.


 

20. La parrocchia, cenacolo in ascolto

         La comunità eucaristica è assidua nell’ascolto della Parola di Dio e del Magistero della Chiesa (l’insegnamento degli apostoli).
         Da essa esce la schiera di tanti catechisti che impegnano la loro testimonianza nella        trasmissione della fede ai ragazzi che devono ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana. E’ un compito difficile, a volte anche poco  gratificante, ma rimane ancora oggi la più   abbondante semina della Parola di Dio nel cuore dei battezzati.
         Insisto su un concetto che ho già espresso precedentemente: “Per troppo tempo abbiamo scolarizzato la catechesi con la conseguenza d’aver creato la falsa convinzione che il sacramento ricevuto (…) dia diritto a non  impegnarsi più nella conoscenza della Parola di Dio” (Riconciliati…verso Gerusalemme, p. 40). Insomma, preso il diploma è finita la frequenza della scuola! La catechesi sia invece più “esperenziale”, abbia sempre un aggancio con la vita dei ragazzi, la sua esposizione sia narrativa, non dottrinale o scolastica, i suoi contenuti facci ano attenzione all’esperienza di fede delle grandi  figure bibliche o all’esempio dei santi. Quanto più  possibile si coinvolgano nella catechesi le famiglie, ma non tanto quale oggetto della catechesi  dentro il contesto di quella sacramentale per i ragazzi, quanto piuttosto come suo soggetto. Nella famiglia i ragazzi vivono ‘esperienze’, non ‘lezioni scolastiche’. Per questo la famiglia rimane il luogo privilegiato della trasmissione della fede. Mi pare che, in questo senso, ci sia una crescita nel coinvolgimento delle famiglie dentro le comunità: veder partecipare genitori e figli ogni domenica alla stessa messa è una  catechesi vivente per tutti gli altri.


 

21. La parrocchia,  cenacolo in preghiera

         La comunità eucaristica condivide la “frazione del pane” e la “preghiera”,           specialmente nella celebrazione domenicale dell’eucaristia. Sul valore che ha questo momento celebrativo nel Giorno del Signore abbiamo già detto nel precedente piano pastorale (“Come ho fatto io, fate anche voi”). Qui vorrei sottolineare la necessità che abbiamo di recuperare la forza intrinseca dei segni della liturgia attraverso   un’attenzione marcata al loro svolgimento. Questi segni, uniti alle parole della liturgia, si raccordano bene con le situazioni esistenziali di ogni credente. A volte basta poco per sottolineare   questo rapporto tra parole, segni liturgici e la vita di ogni giorno. Insomma parafrasando un antico adagio: lex orandi statuat legem vivendi (la regola della preghiera liturgica diventi regola    della nostra vita).
         All’interno della celebrazione l’omelia   riveste un’importanza particolare per il valore diretto e testimoniale che assume. Tutti invochiamo omelie più ‘intense’. “Quando un laico torna a casa dopo una predica non ricorda a lungo ciò che il prete ha detto, ma porta con sé il fascino, la forza di convinzione con cui ha parlato”, così scrive Jean Guitton. La forza di  convinzione e il fascino devono unirsi a una  lettura sapienziale (quindi fondata sulla Parola) del presente e a una capacità di comunicazione coerente con l’uditorio che si ha davanti. Non c’è omelia che non debba parlare di Cristo (Cf. Lc 4,16-21).


 

22.  un parroco ‘nuovo’  per una parrocchia ‘nuova’

         In questa parrocchia dovrà essere anche ‘nuovo’ il parroco, capace cioè di corrispondere alle sfide del nostro tempo. Sappiamo bene come la nostra diocesi viva una situazione difficile per il numero esiguo di sacerdoti e la loro alta età media. Ma proprio l’impegno pastorale che tutti vivono e la comunione che con essi sperimento e desidero vivere, mi porta a riflettere insieme a loro sul rinnovamento che ci viene richiesto come pastori che ‘traghettano’ la Chiesa nel terzo millennio. In realtà l’esigenza è della Chiesa Universale. Lo dimostra il titolo del documento della Congregazione per il Clero, uscito in vista del Giubileo: Il presbitero, Maestro della Parola, Ministro dei Sacramenti e guida della comunità in vista del  terzo millennio cristiano. Questo documento delinea dei punti cardine che sono lo specifico del ministero sacerdotale; essi corrispondono, come si vede, all’esplicitazione funzionale del dato battesimale di profezia, sacerdozio e regalità. A questo profilo aggiungerei alcuni tratti che  derivano quasi naturalmente dal volto che    abbiamo tracciato della ‘nuova’ parrocchia. In essa il presbitero non potrà ridurre il suo         ministero alla funzione giuridico amministrativa di parroco, o a quella cultuale-sacrale di sacerdote, ma piuttosto assumerà la paternità pastorale che il nostro popolo gli richiede chiamandolo ‘padre’. Si tratterà di presiedere la comunità eucaristica valorizzandone tutti i carismi e di  guardare senza pregiudizi i battezzati ‘della soglia’; di farsi anzi strumento di unione tra i vari livelli di appartenenza alla comunità educandosi ed educando continuamente all’accoglienza e all’ascolto.
         In un mondo sempre più esigente la preparazione culturale del sacerdote dovrà    coniugarsi con una profonda preparazione spirituale: è la sintesi di questi due aspetti dentro virtù umane consolidate che darà una connotazione sapienziale a tutta la sua azione pastorale.
         Se ‘nuovi’ devono diventare i preti che già lo sono, tanto più quelli che devono diventarlo. Il progetto formativo del seminario cercherà di curare la formazione dei seminaristi con uno sguardo al futuro della Chiesa in un mondo che cambia. I giovani chiamati al sacerdozio possano sperimentare la gioia della comunione, l’impegno della preparazione culturale, una vita spirituale intensa, un’abitudine alla comunicazione del Vangelo secondo tutti i percorsi possibili.
         Dio ci fa il dono meraviglioso della  comunione, come non comunicarlo? E’ questa la testimonianza in cui vogliamo impegnare la nostra vita: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ossia il Verbo della vita, noi vogliamo annunziarlo a tutti, perché tutti possano essere in comunione con noi e la nostra gioia sia perfetta!” (Cf. 1Gv 1,1-4).

QUADRO V

LA CHIESA Per comunicare comunione

23. Come comunicare? alcune vie possibili

         Nell’incontro con i discepoli di Emmaus Gesù realizza la prima forma di comunicazione della fede: la relazione personale, l’incontro di un uomo con un altro in quella gratuità che è già un riflesso della comunione trinitaria.
         Ma, nella storia della Chiesa, questa forma essenziale non ha escluso le altre. La stessa formazione del Canone delle Scritture del Nuovo Testamento dice un passaggio importante dalla Parola annunciata alla Parola proclamata. Da  questo momento anche la lettura del Nuovo Testamento, conservato su materiale scrittorio, diventerà uno strumento formidabile della trasmissione della fede, permeando gli scritti dei primi padri della Chiesa e consentendo la prima grande stagione della riflessione teologica sul Cherigma apostolico. La traduzione di tutta la Sacra Scrittura ad opera di San Girolamo nel testo latino della Vulgata ha permesso, per la tarda antichità, la trasmissione ‘planetaria’ del testo sacro e quindi della buona notizia del vangelo.
         Anche le arti hanno contribuito non poco alla diffusione del Vangelo: si pensi all’influsso enorme del canto gregoriano dopo la riforma appunto di San Gregorio, e della musica sacra in generale, o la grande pedagogia delle immagini dalle catacombe fino ai grandi cicli narrativi della storia sacra di cui abbiamo esempi insigni anche in terra di Sicilia.
         Portando nella sua storia la pedagogia  dell’incarnazione, la Chiesa, di volta in volta, ha assunto le forme della comunicazione che l’uomo ha saputo realizzare.
         Ha assunto cioè la ‘modernità’ di ogni epoca. Quando non l’ha fatto si è rallentato il  processo di comunicazione del Vangelo. Pensiamo, per esempio, a quello che è successo dopo l’invenzione della stampa, in cui la tensione polemica con i riformatori ha rallentato l’uso di questo mezzo, ampiamente usato invece dai  luterani per diffondere testi e immagini in    maniera capillare; o al notevole ritardo nell’uso delle lingue nazionali.
         L’impegno di comunicare il Vangelo diventa dunque disponibilità a conoscere gli attuali strumenti attraverso cui le parole e le immagini corrono nel mondo. Questo impegno ci viene richiesto già dal Concilio Vaticano II che ha tra suoi documenti applicativi quello del 1971 intitolato, non a caso, Communio et progressio, il quale esordisce proprio così:”La comunione e il progresso della società umana costituiscono lo scopo primario della comunicazione sociale e dei suoi strumenti, quali la stampa, il cinema, la radio e la televisione”(n.1); documento che meriterebbe di essere riletto. Sappiamo bene che la comunione e il progresso sono finalità della comunità ecclesiale, ma sappiamo anche che l’uso distorto e la manipolazione dei mezzi di comunicazione sociale può raggiungere, in mano a uomini senza scrupoli e assetati di potere, esattamente il risultato opposto. Capiamo dunque l’urgenza di una capacità critica e di un uso corretto di questi mezzi. Si tratta di tradurre la testimonianza personale in un servizio di comunione per i   fratelli, perché, come diceva don Milani: “Non potrete fare nulla per il prossimo finchè non saprete comunicare”.
         Imparare a comunicare è dunque un servizio, la risposta concreta a un dono che è nel cuore di tutti i cristiani e di cui si vuole render   partecipi gli altri. Indichiamo qui alcune ‘vie’ pastorali di comunicazione del Vangelo per il cammino della nostra chiesa trapanese.


 

24. Missione popolare

         La comunicazione ‘a tu per tu’ del  Vangelo, quella di Gesù con i discepoli di Emmaus,  rimane la più immediata. Essa, infatti, va al cuore della vocazione missionaria della Chiesa (pensiamo al dialogo di Filippo con l’eunuco della regina Candace sulla strada da Gerusalemme a Gaza; cf. At 8,26-40).
         Lo stile missionario e la comunicazione del Vangelo sono inseparabili.
         Ecco perché la missione popolare potrebbe essere uno strumento efficace di comunicazione tra le varie componenti della diocesi, missione come incontro delle varie realtà l’una verso l’altra, in vista della comunione. La missione popolare potrebbe far crescere le varie comunità nella stima reciproca e nella consapevolezza dei propri ruoli e del dono ricevuto; e potrebbe essere un’eccellente preparazione alla visita pastorale del vescovo.
         Sentire come proprio il mandato missionario significa vivere profondamente la vita nelle sue relazioni, nei suoi percorsi verificabili, attenti ai destinatari e alla loro storia.


 

25. La pietà popolare

         Dicevo nel Piano Pastorale del 2001-2002 che, “nel rispetto dell’anno liturgico, (…) le forme di religiosità popolare possono costituire un prezioso veicolo del senso cristiano della vita e preparazione ad una più incisiva inculturazione (e aggiungiamo, comunicazione) del Vangelo” (p. 44). Ne sono ancora convinto e mi conforta anche l’uscita da parte della Congregazione per il Culto Divino di un “Direttorio su pietà popolare e liturgia”.
         Dal documento emerge l’esemplare sinergia tra pietà popolare e liturgia.
         Il loro corretto rapporto viene turbato: a scapito della liturgia, quando il popolo cristiano affievolisce la consapevolezza del senso della Pasqua e la sua centralità e perde la conoscenza del linguaggio proprio della celebrazione (la lingua, i simboli, i gesti rituali); a scapito della pietà popolare, quando non si tiene conto che essa è una realtà ecclesiale promossa e sorretta dallo Spirito, quando si ignora che ha prodotto frutti di grazia e di santità nella compagine ecclesiale o quando si confonde il sentimento, nobile componente dell’animo umano, con la sua degenerazione, che è il sentimentalismo (Cf. Direttorio…, nn. 47-57). “Liturgia e pietà popolare - dice ancora il Documento al n. 58 - sono due espressioni legittime del culto cristiano, anche se non omologabili. Esse non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare come viene descritto nella Costituzione liturgica: “I pii esercizi del popolo cristiano (…) siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano” (SC 13).
         Processioni (in particolare quella del Corpus Domini), pii esercizi, feste patronali,   devozioni mariane, sono momenti che superano i singoli linguaggi in un linguaggio comune, sono manifestazioni di fede ed espressioni della pietà cristiana, nate in molti casi dal genio del nostro popolo.


 

26. La cultura

         All’interno del panorama culturale odierno c’è una frammentazione di pensiero che rende problematico il discernimento su fenomeni sociali mutevoli e contrapposti; essi manifestano la deriva dai valori tradizionali e svelano un vissuto schizofrenico e alienante. Il credo religioso è spesso osteggiato, deriso e ridicolarizzato da una blasfema propaganda su scandali che interessano settori della chiesa cattolica. Il credo cattolico o viene attaccato dalla grinta distruttrice mai   spenta della cultura post-illuministica oppure (ed è ancora peggio) viene annacquato nel brodo culturale del buonismo marcato New age, che, temiamo, potrebbe annidarsi anche in ambito credente.
         Il dramma dello scollamento tra fede e vita, tra Vangelo e storia, oggi si fa più acuto e richiede, pertanto, che il messaggio liberante e salvifico di Gesù venga proposto con più forza di consapevolezza, santità di vita, modi e strumenti nuovi. Il progetto culturale della chiesa italiana postula un percorso di pensiero credente che attraversa ogni ambito della cultura. La “nuova evangelizzazione” alla quale ci richiama Giovanni Paolo II è la grande sfida che siamo chiamati ad accogliere con la lucida consapevolezza di chi guarda con amore il nuovo della storia e cerca con ogni mezzo di valorizzare il patrimonio di pensiero e di fede del popolo.
         Ritornare a pensare nella fede è l’obiettivo pastorale primo; dare spessore    culturale alla nostra pastorale è la bella e impegnativa avventura con la quale la nostra comunità diocesana è chiamata a misurarsi.
         E il nodo problematico della cultura è la comunicazione. La comunicazione implica la conoscenza dei linguaggi espressivi entro cui essa stessa si svolge. Questa comprensione dei linguaggi è già un’operazione eminentemente culturale. La prova più evidente è l’apprendimento di una nuova lingua: imparare le sue parole significa conoscere la cultura, il modo di pensare del popolo che la parla, allargare quindi enormemente il proprio orizzonte di pensiero.
         Lo sforzo di capire i linguaggi umani allarga enormemente la conoscenza degli altri e di sé: la semplice comprensione di un testo, esattamente così com’ è, significa già essere entrati nel cuore del suo messaggio. Pensiamo cosa ha significato, per la riconquista della centralità della Sacra Scrittura nella Chiesa e per l’enorme sviluppo   della Teologia Biblica, l’approccio moderno ai testi sacri studiati nella loro lingua originaria. Lo stesso vale per i linguaggi musicali e artistici in genere. Il medium, dicono alcuni, è già il messaggio.
         Potremmo dire che l’apertura a tutti i linguaggi umani è un atteggiamento cattolico, quello cioè di chi vuole comunicare il Vangelo a tutti nel pieno rispetto della loro identità e in uno scambio vicendevole.
         Dicevo perciò che “cultura e pastorale sono due binari di un'unica locomotiva che conduce verso il traguardo di una nuova umanità” (Cf. Riconciliati…, pag.51). E aggiungevo: “perché le ragioni della fede non siano proclamate soltanto nelle omelie e nelle catechesi, (…) si richiedono cristiani attrezzati culturalmente” (Id.,pag.53), ovvero, aggiungo ora, innamorati della comunicazione.
         Cosìcchè il testimone di Cristo sia già, lui stesso, il suo messaggio.


 

27. I mezzi di comunicazione sociale

         “Ricercare e sperimentare forme inedite di evangelizzazione sfruttando tutti i moderni strumenti di comunicazione è l’assillo che deve guidare la Chiesa in questo nuovo areopago dei tempi moderni” (“Come ho fatto io... anche voi” pag. ).
         Oggi non esiste un solo medium per la comunicazione. Ce ne sono tanti e li chiamiamo mass - media perché sono in grado di raggiungere immediatamente un pubblico vastissimo. Essi hanno consentito una conoscenza dei linguaggi dell’uomo impensabile fino a cinquant’ anni fa (Cf. Communio et Progressio, n.49).
         Oggi tutti hanno accesso all’ascolto di una sinfonia, di un concerto rock; possono leggere o vedere un pezzo teatrale; avere a disposizione le immagini di opere d’arte in perfetta risoluzione senza frequentare tutti i musei; conoscere le poesie di uno sconosciuto che le ha scaricate su internet. In questo flusso eterogeneo di comunicazione dobbiamo imparare a comunicare il Vangelo.
         I media possibili possono essere tanti e diversificati: giornale parrocchiale, televisione e radio locali, cineforum, siti internet. All’interno del sito della diocesi il già costituito ‘forum’ si è mostrato strumento interessante, ancora da sviluppare, perché consente di mettere in relazione le persone tra loro e loro con il territorio della diocesi (e quindi delle parrocchie); esso consente di attivare nuove strategie di annuncio nella duplice prospettiva della nuova evangelizzazione e dell’inculturazione della fede.
         Oggi la comunicazione è diventata paradigma culturale e come ricorda il Papa parlando dei mezzi di comunicazione sociale “non basta usarli per diffondere il messaggio cristiano e il magistero della chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa nuova cultura creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa ‘nuova cultura’ nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici”. (Redemptoris missio n.37).
         Non si tratta, quindi, semplicemente di utilizzare i media per dare risonanza alla testimonianza della nostra chiesa e visibilità alle sue iniziative. C’è in gioco qualcosa di più grande: l’amore all’uomo di oggi che vive in un contesto massicciamente  segnato dai mezzi di comunicazione sociale e l’accoglienza della sfida culturale che mira ad aiutare i credenti a declinare comportamenti e linguaggi che sappiano esprimere le meraviglie di Dio nella storia.
         E’ un’impresa essenzialmente culturale: siamo chiamati a riprendere con coraggio il ruolo di protagonisti nella vita sociale e culturale del nostro territorio facendo risuonare l’annuncio di salvezza. E’ la comunicazione che crea la comunità attraverso il dialogo e il “dare se stessi” (Communio et Progressio n.11). Ciò implica non solo l’uso delle nuove tecnologie ma anche il rinnovamento della comunità umana nella chiesa e nella società.
         Infine, lo sforzo della comunicazione del Vangelo da parte della comunità ecclesiale (e quindi della parrocchia) deve tener conto dei dinamismi della comunicazione, in cui l’emittente attraverso il medium conquista il ricevente  (ascoltatore o lettore) al suo messaggio. Si tratta da  parte nostra di avere una fortissima autocoscienza, una volontà e una forte convinzione di poter raggiungere ‘il successo’ della nostra comunicazione per il semplice fatto che la notizia che  intendiamo trasmettere è la più importante del mondo e quella di cui il mondo ha più bisogno (il Vangelo!); si tratta di stabilire le giuste ‘frequenze’ senza entrare nelle ‘frequenze’ di altri   messaggi che farebbero perdere la limpidezza (se non anche lo specifico) del nostro segnale e   raccordare la potenza di trasmissione alle esigenze dei destinatari; sono essi il termine della comunicazione; quindi, per restare nella metafora, il nostro ‘palinsesto’ di trasmissioni deve tener conto di ciascuno di loro (oggi si dice: il target).


 

28. L’arte e le arti

Tutte le arti sono linguaggi diversi, media attraverso cui l’uomo dà voce alle sue idee e ai moti del suo animo. Nella fertile dialettica tra ragione (classicismo) e sentimento (romanticismo) gli artisti di ogni epoca hanno espresso il loro sentimento religioso, la loro passione civile, o anche, in nome della libertà, il loro abbandono di ogni prospettiva etica. Certe forme dell’arte moderna e contemporanea hanno portato la Chiesa ad un difficile rapporto con gli artisti. Bene lo sottolineava Paolo VI nel suo discorso agli artisti del 7 maggio 1964, subito dopo il Concilio: “Come avviene tra parenti, come avviene fra amici, - diceva - ci si è un po' guastati. (…) Qualche volta (…) non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte neanche voi; ne segue un linguaggio di Babele, di confusione. Ma per essere sincero e ardito riconosciamo che anche noi vi abbiamo fatto un po' tribolare perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. E poi vi abbiamo abbandonato anche noi. Non vi abbiamo spiegato le nostre cose, non vi abbiamo introdotti nella cella segreta, dove i misteri di Dio fanno balzare il cuore dell'uomo di gioia, di speranza, di letizia, di ebbrezza. Non vi abbiamo avuti allievi, amici, conversatori. Vogliamo ritornare amici?”.
Questa conversazione con le arti (non stiamo parlando di comunicazione e comunione?), questa amicizia deve riprendere, anzi per certi versi è già ripresa, anche nella nostra diocesi. L’ulteriore sprone è stata la più recente Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli artisti per il Giubileo. Egli ammette che "(...) persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l'arte continua a costituire una sorta di     ponte gettato verso l'esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un'immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell'anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l'artista si fa in qualche modo voce dell'universale attesa di redenzione".
         Siamo ancora convinti che “in Dio l’arte (…) attinge ogni idea di bellezza. Su questo      versante la cultura credente è chiamata a      scommettersi e a produrre bellezza, verità, bontà, nella vita e nel cuore degli uomini e delle donne di oggi” (Cf. Riconciliati…, p. 52).
         L’esperienza estiva di IncontrArti, svoltasi nell’austero clima Erice è stata una prima occasione per far dialogare le arti tra loro ed esse con noi.
         Quando ad animare i cuori è la bontà e la sincera ricerca della verità, allora la reciprocità dei mezzi di comunicazione (e delle arti) è positiva, perché riflette in qualche misura ciò che avviene nella Trinità stessa, “dove si realizza la pienezza del feed-back comunicativo” (G. Cinelli) .

QUADRO VI
Conclusioni

29.  Maria, modello creaturale della comunione

         Tanto abbiamo parlato di comunicazione del Vangelo; ebbene Maria è la prima creatura ad averlo ricevuto. In lei l’annuncio dell’Angelo si è fatto subito testimonianza: “Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38), con tutta la sua conseguenza martiriale: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35). Ma ella, subito, si è messa al servizio della Parola comunicandola alla cugina Elisabetta tutta piena di sollecitudine per lei.
         Maria comunica al mondo il Vangelo dando alla luce suo Figlio.
         Lei, strumento (medium) per la salvezza di noi tutti, è già la prima salvata ad abitare il  Paradiso.
         A lei affidiamo nella preghiera la capacità della nostra Chiesa di Trapani di annunciare,  testimoniare, servire il Vangelo in un mondo che cambia.    
                   
O Maria, donna della fede,
immagine della Chiesa,
prima Redenta dal sangue di Cristo,
compagna amorevole dei discepoli del Signore,
la tua presenza nella vita della chiesa
è necessaria, insostituibile, preziosa.
Nel cenacolo rendesti il servizio della speranza,
sostenesti gli apostoli delusi e paurosi,
pregasti con loro
e, stando in ascolto umile dello Spirito,
impetrasti il dono della Pentecoste.
Da quel luogo di grazia,
temprati dallo Spirito,
gli apostoli uscirono
per portare a tutto il mondo
la gioia salvifica del Redentore.
Comunicare l’Evangelo, testimoniare la fede,
servire la Verità, promuovere l’uomo
è l’affascinante e impegnativa avventura
della Chiesa, sacramento di salvezza.
L’evento della Pentecoste
sconfigge la paura e la Babele,
dà le ali alla speranza,
dona unità alla famiglia umana
divisa a causa del peccato.
Maria, madre del cenacolo,
centro ideale della comunità cristiana,
tu che, adombrata dallo Spirito,
sei stata degna di generare
l’Autore della vita,
e nel mistero della Pentecoste
hai ricevuto il sigillo dello Spirito,
tu, Madre della chiesa,
inviata nel mondo per comunicare il Vangelo,
fa’ che in questo mondo che cambia
riusciamo a trovare
la forza, il coraggio, la grinta, i modi
per comunicare il Vangelo,
e incidere sulle coscienze
portandole all’adesione cosciente della fede.
Fa’, o Madre, che come gli apostoli
possiamo parlare con coraggio
e tutti gli uomini nostri fratelli
possano udirci
ognuno nella propria lingua;
fa’, o Madre, che possiamo
creare comunione vera,
fare dei tanti dispersi
un solo popolo, il popolo dei salvati.
O Maria, tu che, abitata dalla Parola,
hai saputo nel silenzio meditarla e farla tua,
ottienici la grazia di accogliere il Verbo della vita
e di sapere comunicare il Vangelo in umiltà,
con gioia, con convinzione, con competenza,
senza stancarci mai.
Fa’, o Madre, che le nostre parrocchie,
nello stile del cenacolo,
sappiano ascoltare l’apostolo, pregare,
spezzare il pane,
vivere la comunione e il servizio.
Le nostre parrocchie siano parrocchie nuove
capaci di inventarsi stili
e modi nuovi per la comunicazione della fede,
attente all’uomo in ogni situazione della vita,
al servizio della Verità che libera.
Non manchi mai, o Vergine purissima,
la gioia di donare, di servire,
di cantare alla Santa Trinità
l’inno di lode, di ringraziamento,
di adorazione.
Amen.  

Bibliografia dei documenti

  • Communio et Progressio, Istruzione Pastorale sugli strumenti della comunicazione sociale, 1971
  • Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Orientamenti Pastorali dell’Episcopato Italiano, 2001
  • Lumen Gentium, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa, 1964
  • Francesco Micciché, Riconciliati camminiamo insieme  verso Gerusalemme, Piano Pastorale della Diocesi  di Trapani, 1999
  • Francesco Micciché, Come ho fatto io, fate anche voi, Piano Pastorale della Diocesi di Trapani, 2001
  • Il presbitero, maestro della Parola, ministro dei  sacramenti e guida della comunità in vista del terzo  millennio cristiano, Congregazione per il Clero,1999
  • Direttorio su pietà popolare e Liturgia. Principi e  orientamenti, Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 2002
  • Sacrosanctum Concilium, Costituzione sulla  Sacra  Liturgia, 1963
  • Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio, 1990
  • Paolo VI, Messaggio agli artisti, 1964
  • Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti,1999
 
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