Piano Pastorale 2003-2004
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sabato 30 agosto 2003
 
 
Saluto
 
Figli diletti della Chiesa di Trapani possiate,
nel cammino della vostra vita,
sentire all’unisono col vostro il mio passo amico,
sostenuti dalla forza dello Spirito Santo
sulla Strada Vera che conduce al Padre,
che è Gesù Cristo
Verità, Vita e Via,
ieri, oggi e sempre!
 

INTRODUZIONE

 

Il cammino finora fatto

 
Non abbiamo mai interrotto, per la verità, il nostro cammino; piuttosto lo desideriamo più spedito, aiutati dalla Grazia dello Spirito e dalla forza della nostra Comunione.
Nei primi tre anni del mio episcopato a Trapani abbiamo approfondito il valore della vita spirituale (Sul Tabor per sperare), l’importanza della conversione e della purificazione del cuore (Riconciliati camminiamo insieme verso Gerusalemme) e l’anelito alla testimonianza da dare a Cristo dentro la città terrena (La speranza non delude). In unità con tutti i vescovi italiani abbiamo quindi auspicato con forza, quale punto di svolta del nostro cammino diocesano, il rinnovamento (quasi una nuova nascita) della parrocchia, partendo dal modello teologico del cenacolo.
A questo fine speriamo possa contribuire anche il Piano Pastorale di quest’anno 2003-2004. Esso idealmente conclude una trilogia sulla parrocchia iniziata con i due documenti precedenti. Nel cenacolo, abbiamo detto, si impara a servire alla tavola dell’eucaristia (Come ho fatto io, fate anche voi), nel cenacolo si apprende dallo Spirito di Pentecoste la capacità di comunicare la Comunione trinitaria (Ognuno li sentiva parlare nella propria lingua), dal cenacolo si parte per dare la Buona Notizia senza mai perdere nel cuore la forza spirituale che dal cenacolo promana; come dire: usciamo dal cenacolo, ma non lasciamo il cenacolo, perché esso è simbolo della nostra unione con il Signore e della comunione con i nostri fratelli.
Così fecero gli apostoli nella prima semina del Vangelo.
Possano le parrocchie uscire da se stesse per annunciare Cristo sulle strade del nostro mondo travagliato senza mai perdere la loro identità cenacolare, che è già in sé testimonianza per l’evangelizzazione. Sogno la parrocchia-cenacolo sempre carica della forza della Pentecoste, fontana d’acqua sorgiva per gli affaticati del nostro tempo, fontana che sempre più si riempie secondo la misura del suo donare.
 

Il piano pastorale in un Progetto per la nostra chiesa

 
Una volta fissati i punti fondanti della pastorale della nostra diocesi, per così dire le boe di partenza, è arrivato il tempo di inserirli organicamente nel Progetto Pastorale della nostra Chiesa, che già vi ho annunciato con il titolo: Da Babele a Gerusalemme il cammino della comunione, e che spero possiate avere tra le mani per la Pasqua del 2004.
Si tratta di fissare più chiaramente le tappe del nostro viaggio cominciato sulla vetta contemplativa del Tabor senza perdere di vista, in mezzo all’odierna babelica confusione delle lingue, la meta che vogliamo raggiungere, e cioè una comunicazione chiara ed efficace del messaggio d’amore del Cristo con i mezzi della cultura attuale e con i suoi linguaggi cristicamente assunti; per non sminuire, figli carissimi, il significato dell’Incarnazione nel Mistero di Cristo che dobbiamo annunciare.
I Piani Pastorali dei prossimi anni potranno così concentrarsi sulle singole tappe di questo nostro viaggio pastorale, che sono poi i “nodi” della pastorale odierna, per affrontarli singolarmente in forma monotematica.
In realtà nessun discorso è mai sganciato dall’altro e nessun documento annulla i precedenti. Si tratta piuttosto di acquisire un certo numero di idee utili per la Comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia, e di inserirle nei programmi pastorali che i singoli uffici pastorali di volta in volta elaboreranno, in sintonia con tutto il cammino diocesano guidato dal vescovo.
 

Da dove il titolo di questo piano pastorale


Come negli anni scorsi ci facciamo di nuovo guidare da un’immagine tratta dalla Sacra Scrittura. Ho pensato a questa necessaria uscita dal cenacolo e ho pensato subito alla strada.
Negli Atti degli Apostoli l’andare sulla strada è la conseguenza della Pentecoste e nasce dall’urgenza dell’annuncio sgorgata nel cuore dei discepoli dentro il cenacolo.
Un episodio, in particolare, insiste sul tema della “strada”: è quello dell’incontro che il diacono Filippo, mosso dallo Spirito, fa con un eunuco, tesoriere di una potente regina etiopica, sulla strada da Gerusalemme a Gaza.
Questo incontro si presta a suggestive metafore; esse ci sono utili per indicare l’urgenza di questa “uscita” delle parrocchie verso il mondo, per stabilire alcune priorità della loro azione pastorale in vista dei singoli approfondimenti a cui ci costringerà il Progetto.
Leggiamo dunque attentamente il brano che si trova in Atti, capitolo 8, ai versetti da 26 a 39. Per comodità di lettura mettiamo in evidenza alcune espressioni che guideranno la nostra riflessione.
 
Un angelo del Signore parlò intanto a Filippo: “Alzati, e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta”. Egli si alzò e si mise in cammino, quand’ecco un Etiope, un eunuco, funzionario di Candàce, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i suoi tesori, venuto per il culto a Gerusalemme, se ne ritornava, seduto sul suo carro da viaggio, leggendo il profeta Isaia. Disse allora lo Spirito a Filippo: “Va’ avanti, e raggiungi quel carro”. Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo? ”. Quegli rispose: “E come lo potrei, se nessuno mi istrada? ”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo:
Come una pecora fu condotto al macello
e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa,
così egli non apre la sua bocca.
Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato,
ma la sua posterità chi potrà mai descriverla?
Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita.
E rivoltosi a Filippo l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro? ”. Filippo, prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella: Gesù. Proseguendo lungo la strada, giunsero a un luogo dove c’era acqua e l’eunuco disse: “Ecco qui c’è acqua; che cosa mi impedisce di essere battezzato? ” Fece fermare il carro e discesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’eunuco, ed egli lo battezzò. Quando risalirono dall’acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l’eunuco non lo vide più e proseguì pieno di gioia per la sua strada.
 
Leggendo il brano si capisce che la domanda dell’eunuco (“Come potrei capire se nessuno mi istrada?”)  produce una svolta nel dialogo con Filippo. Essa non apre ancora ad una “istruzione” dogmatica o a un approfondimento catechistico, ma piuttosto all’annuncio del Cherigma da parte di Filippo. Per questo la parola “istradare” ci sembra più adatta ad indicare quello che è solo l’inizio del cammino di fede dell’eunuco, sufficiente a fargli ricevere il battesimo. Pur aprendo alla dinamica sacramentale il brano sembra più interessato a evidenziare il percorso che prepara alla fede, a descrivere il processo di conversione che apre all’accoglienza del Cherigma e alla conseguente trasformazione interiore (pienezza di gioia) data dal battesimo. La domanda dell’eunuco può essere perciò interpretata come la domanda di ciascun uomo che vuole cominciare, o ricominciare (se è già battezzato), a camminare sulla Strada di Cristo come suo discepolo. Una domanda che pensiamo rivolta alle nostre parrocchie, chiamate perciò come Filippo, a uscire sulla strada.  Da qui la scelta del titolo. Sarà il prossimo Piano Pastorale ad approfondire il tema di tutti e tre i sacramenti che costituiscono l’iniziazione cristiana: Battesimo, Cresima ed Eucaristia.

Gli elementi-guida del brano:

Nel nostro brano l’iniziativa dell’evangelizzazione è dello Spirito, che prima è chiamato “Angelo del Signore”, poi semplicemente “lo Spirito”, infine lo “Spirito del Signore”, espressione che rimanda indubbiamente allo Spirito del Signore Risorto. Man mano che l’annuncio di Filippo si orienta a Cristo, anche lo Spirito viene via via connotato con l’attributo che rimanda alla Sua missione preannunciata da Gesù nei discorsi di addio. Filippo “si alza”, “”, “corre”, “raggiunge il carro” guidato dallo Spirito del Risorto. Nel cenacolo, comunicandosi agli Apostoli, lo Spirito Santo aveva già manifestato la sua potenza evangelizzante e la capacità di superare, attraverso la parola “in lingue”, le barriere culturali dello spazio.
 
Il campo d’azione dello Spirito si è spostato ormai fuori dal cenacolo, sulla strada, e con insistente sottolineatura. Il termine “strada” (e dunque “cammino”) è strettamente legato nell’Antico Testamento agli eventi storici della salvezza di Israele (chiamata di Abramo, emigrazione di Giuseppe con i fratelli in terra d’Egitto, esodo attraverso il Mar Rosso, attraversamento del Giordano per entrare nella Terra Promessa, ritorno dall’esilio); E’ la Parola a indicare la “strada” che conduce alla salvezza e alla gioia (“Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza”, Sal 16,11), cosicchè la strada finisce con identificarsi sia con la scelta morale del bene sia con l’insegnamento della Thorà (“Fammi conoscere, Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua verità e istruiscimi ”, Sal 25,4); del saggio infatti si dice che “la luce del Signore è la sua strada” (Sir 50,31)
Il Nuovo Testamento riferisce il termine alla Parola-Evento, a Cristo Gesù, che rivela se stesso come “Strada” per raggiungere il Padre, e la cui vita è tutta un “cammino” sulla strada per Gerusalemme. E’ una strada difficile e impegnativa quella di Cristo, mentre larga e spaziosa è quella che conduce alla perdizione (Cf. Mt 7,13s).
Suggestivamente, negli Atti degli Apostoli, e proprio a partire dal nostro brano, questo termine indicherà anche tutti i discepoli di Cristo, chiamati pertanto “Quelli della Strada” (At 16,17; 18,25.26; 19,9; 22,4; 24,14.22)
 
Nel brano c’è un altro termine rilevante: il carro. San Luca indugia a precisare che l’eunuco è seduto sul carro. L’eunuco stesso rivolge a Filippo l’invito a “salire sul carro”. Questo accade in seguito alla domanda di Filippo: “Capisci quello che stai leggendo?”. Il particolare è curioso: è come se Filippo facesse questa domanda da terra mentre corre innanzi al carro; in questa corsa, fatta per ordine dello Spirito, Filippo è riuscito ad ascoltare il passo della Scrittura che l’eunuco stava leggendo sul carro e intercettare la curiosità che gli era venuta a proposito della sua interpretazione.
 
Al centro anche strutturale del brano c’è il racconto della Pasqua, l’annunzio della Buona Novella, che è Gesù. E’ la trasformazione del cuore dell’eunuco. Questi sta cercando una risposta alla propria triste condizione di uomo sterile e senza posterità,  vissuto sempre nella morte sociale e affettiva, e si pone la domanda sul Servo Sofferente del libro di Isaia: Servo che, andando volontariamente incontro alla morte, sembra invece ottenere una posterità, e dunque una fecondità, che a lui, in quanto eunuco, è negata. E’ a questo punto che la fecondità della Risurrezione del Servo Sofferente che è Gesù di Nazareth apre il cuore dell’eunuco alla speranza di una fecondità che va ben al di là delle pure leggi biologiche.
 
La scelta dell’eunuco di fermare il carro e di scendere nell’acqua per essere battezzato fa diventare quel suo cammino da Gerusalemme a Gaza nel deserto un piccolo esodo, che lo conduce ad una pasqua personale di risurrezione in Cristo Gesù. E’ la celebrazione di una vita che sembrava ormai chiusa nell’ombra di morte della propria solitudine e che ora può aprirsi alla compagnia della fede.
 
Ben diverso è dunque l’atteggiamento interiore dell’eunuco dopo che è risalito sul carro; lasciato nuovamente solo, ora non lo è più, e quella strada che portava a Gaza, alla corte di Candace in cui la sua condizione di morte biologica garantiva il potere della Regina, ora è diventata la “sua” strada; perciò può tornare gioioso, perché sente vivo nel proprio cuore il seme della Parola che rende feconda la vita dell’umanità intera.


1. Alzarsi all’ascolto dello Spirito (contemplare)

Dinanzi alla tiepidezza che spesso alberga nel cuore dei credenti solo un nuovo anelito alla pratica della vita spirituale può far ringiovanire il volto della nostra Chiesa. Dare il primato allo Spirito significa vivere da risorti. Così lo Spirito invita Filippo ad alzarsi, a vivere cioè la piena comunione con Cristo Risorto, per poter egli con prontezza disporsi all’evangelizzazione a cui lo Spirito stesso lo spinge.
 
Questa vita nello Spirito, che ha esempi luminosi nelle comunità di vita contemplativa presenti nella nostra diocesi, deve raggiungere e informare anche la vita delle parrocchie. La prima forma di evangelizzazione rimane sempre e comunque la preghiera. La santità è personale!, dicevo nel primo piano pastorale (Sul Tabor per sperare, 13). Essa, quando è autentica, fiorisce nel cuore degli uomini all’ ascolto della Parola di Dio, di se stessi, dei segni dei tempi; apre al dialogo sincero con l’altro; conduce le singole esperienze alla testimonianza dell’unica fede nel Risorto; apre ad una ministerialità cosciente, desiderosa sempre di crescere nella formazione, oltre che nelle motivazioni.
Nella nuova parrocchia-cenacolo la preghiera (a partire da quella liturgica) trasforma la santità dei singoli in testimonianza ecclesiale, rivelando al mondo l’appartenenza esclusiva della Chiesa al Cristo suo sposo: è questa la santità della Sposa!
 
E’ una vita di santità, cioè di vera appartenenza a Cristo, che può consentire di lasciare il cenacolo rimanendo nel cenacolo: ciò significa tenere fisso lo sguardo su Gesù mentre Egli dal suo costato trafitto continua a effondere lo Spirito che guida la Chiesa. Si possono anche moltiplicare le iniziative pastorali, ma dov’è il vero tesoro, nel Cielo, dove nè tignola nè ruggine consumano, proprio là deve riposare il cuore (cf. Mt 6,20). Solo ciò che a quell’altezza si è contemplato, si ha il dovere di trasmettere agli altri. La santità è la parola chiave dell’azione pastorale per rinnovare il volto delle nostre parrocchie. E’ una strada umile, la santità del quotidiano, una “piccola via”, per dirla con Teresa di Lisieux, che viene attraversata nell’abbandono orante alla voce dello Spirito.
Cenacolo e strada non sono realtà antitetiche, ma esprimono una medesima tensione nell’esperienza feriale del cristiano.
 
La prima azione dello Spirito è la sua stessa libertà (“soffia quando e dove vuole”), l’imprevedibilità dei mezzi di cui vuole servirsi, la gratuità che chiede a chi si lascia guidare da Lui. “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8). Come Filippo.
Questo può significare trovarsi come lui, improvvisamente e da soli, sulla strada, in un deserto, nel pieno della calura del mezzogiorno, a incontrare uno sconosciuto, un eunuco senza futuro e senza gioia.


2. Andare sulla strada (uscire)

La casa evoca il calore e l’intimità di una famiglia riunita. La strada, invece, evoca una condizione di insicurezza, di pericolo, di solitudine, di povertà o traviamento morale, oppure una totale libertà senza regole.
Le situazioni “estreme” della vita umana facilmente trovano come scenario la strada.
La strada è il luogo della prostituzione di uomini e donne vittime dello sfruttamento, o dell’accattonaggio di tanti immigrati pilotato dalla malavita, o della solitudine cosciente di tanti barboni, o anche della tragica esistenza dei “bambini di strada” esposti alla violenza e all’abuso di adulti senza scrupoli.
 
La strada è anche il simbolo della liberazione da ogni schema morale. Il libro di Kerouac, On the road (Sulla strada), ha segnato diverse generazioni e per molti ancora è l’emblema della libertà sessuale, del libero uso delle droghe e dell’alcool, o anche di un rapporto immediato, primitivo, con la natura e con se stessi.
Nel film Thelma e Louise la strada di due donne, intrisa di sangue e di violenza insensata, termina in un burrone, scelto come via suprema di libertà: un suicidio che sembra fare il verso ironico ad un altro tragico epilogo, quello di Gioventù bruciata, film in cui i giovani protagonisti bruciavano le loro vite sulla strada in assurde performances automobilistiche.
 
La strada”è anche quella immaginata da Federico Fellini: nel suo film omonimo la piccola prostituta protagonista getta uno sguardo puro sulla realtà e prova a fare della strada un luogo di innocenza e di fedeltà. O quella di David Linch; nel film Una storia vera l’anziano protagonista fa molte miglia di strada a 7 Km l’ora pur di riconquistare l’affetto del fratello con cui da 10 anni non si parla.
La strada, dunque, può anche essere luogo di incontri, di nuove relazioni possibili, di cammini che conducono a nuove mete.
 
Da sempre i cristiani hanno attinto dalla strada forza di purificazione, di santificazione, di comunione e di solidarietà. Il pellegrinaggio è una strada spirituale che spontaneamente il popolo di Dio percorre. Pensiamo a ciò che da sempre ha significato il pellegrinaggio in Terra Santa per tutta la cristianità, o i grandi pellegrinaggi europei verso Santiago di Compostela, Fatima, Lourdes o Padova, o quelli nazionali come in Polonia verso Czestocowa o in Italia a Loreto; e pensiamo al silenzioso fluire di tanti pellegrini verso i santuari mariani della nostra diocesi anche nel profondo delle ore notturne. La forza simbolica della strada, metafora della vita, promana dalla stessa Storia della salvezza.
 
Le “strade” nella Bibbia percorrono deserti, valicano montagne e attraversano miracolosamente le acque per far passare illesi uomini in pericolo, gli schiavi, i bisognosi di una patria. E la venuta del Messia sulla terra è preannunciata dal Battista come un colmarsi di valli e uno spianarsi di montagne per aprire una strada nuova nel deserto. Da allora quanti si trovano sulla strada, “nelle tenebre e nell’ombra di morte”, possono incontrarvi Colui che “come Sole che sorge viene a visitarci dall’alto per guidare i nostri passi sulla strada della pace” (Lc 1, 78s).
E’ sulle strade del mondo che Gesù si fa Strada (“Strada, verità e vita”) per quanti hanno vagato a lungo senza meta e desiderano il calore della casa del Padre (“Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me, Gv 14,6).
Anche noi, come il Buon Samaritano, sulla strada possiamo incontrare i “feriti” del nostro tempo da condurre al tepore della locanda (non è forse questa locanda simbolo della Chiesa?) per versare sulle loro piaghe “il balsamo della consolazione e il vino della speranza” (prefazio comune).
 
Andare sulla strada significa incontrare l’uomo del nostro tempo nella sua situazione, qualunque essa sia, e quindi implica anche un uscire dai nostri pregiudizi, dalle nostre chiusure mentali, o dalle nostre opinioni inamovibili.
Come infatti possiamo intercettare le domande che l’uomo di oggi fa a se stesso (o ci vuole fare), se ce ne stiamo dentro le nostre sicurezze incapaci di uscire allo scoperto?
Solo sulla strada è possibile guardare alle varie realtà umane con intelligenza e amore e scoprire i semi di bene (semina verbi) nascosti, quasi imprigionati, di cui la vita è intessuta per farli emergere e portarli a compimento.
L’orizzonte di questa strada è ampio:”è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia, così pure della cultura, delle scienze, delle arti, della vita internazionale e degli strumenti della comunicazione sociale” (Evangelii nuntiandi, 70).
Non basta stare sulla strada, è necessario vivere la strada, luogo teologico e realtà di salvezza: stare dentro, farsi carico, soffrire sulla propria pelle “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi” (G S, 1), assumere in maniera critica modi di essere, di relazionarsi, di comunicare, di interagire.
Tenere le chiese aperte può essere un modo per uscire sulla strada, vivendo la strada, e affacciarsi al mondo esterno così come esso scorre, o offrire una piccola sosta per chi sulla strada vuole dare riposo alla fatica del suo cuore; nei quartieri a rischio, vigilare sul territorio anche nelle ore della notte, per capire meglio la loro situazione e prestarvi aiuto (le cosiddette ronde della notte).
I luoghi di villeggiatura e le località turistiche, così frequentate nella nostra diocesi per la bellezza del paesaggio e la ricchezza culturale del suo patrimonio storico artistico, sono una strada naturale di evangelizzazione, in cui l’incontro può diventare spontaneo e più semplice nel clima del riposo estivo; se, tuttavia, sappiamo uscire dal vicolo cieco dei facili moralismi.
L’ansia pastorale di una comunità parrocchiale che si apre veramente ai bisogni e alle domande del territorio comporta sempre dei rischi di incomprensione da parte dei “benpensanti”. O forse i benpensanti popolano proprio le nostre assemblee?
 
Eppure Gesù lungo la strada incontrava e guariva gli emarginati, ciechi, zoppi, paralitici e lebbrosi  che imploravano il suo intervento salvifico (“Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”, Lc 17,19); risuscitava i morti (“Giovinetto, dico a te, alzati!”, Lc 7,14); rispondeva agli uomini che cercavano il senso della vita (“Maestro buono che cosa devo fare per avere la vita eterna?, Lc 18,18); e sulla strada svelava l’ipocrisia dei benpensanti del suo tempo (“Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”, Gv 8,7); e questi pii benpensanti ripetevano : “E’ andato ad alloggiare da un peccatore!”(Lc 19,7).
 
Ma i santi, sull’esempio di Gesù, ci hanno insegnato che ci si può sedere alla mensa dei peccatori, senza condividerne il peccato (Teresa di Lisieux). E’ questo che intendo quando invito a uscire dal cenacolo senza mai lasciarlo. Il cenacolo del cuore, dove inabita la Santa Trinità, cammina con noi, su tutte le strade.
Filippo “corse innanzi” al carro dell’eunuco per intercettare la domanda sul Servo sofferente e potergli dare una risposta. E non si chiese in quel momento: “Perché devo correre più forte di questo carro? Ma devo proprio mettermi a discutere con questo eunuco?”. Ma è la sua mediazione a provocare la domanda cruciale: “E come lo potrei se nessuno mi istrada?”. Questa mediazione fatta di compassione gli consente di dire una parola, ovvero la Parola per la conversione a Cristo dell’eunuco.
La fede ha bisogno di tanti che, come Filippo, siano capaci di ascoltare lo Spirito e di farsi guidare da Lui a costo di andare lontano dalla propria realtà quotidiana, sulle strade sconosciute della vera compassione. E non si può dire che Filippo non potesse avere altro da fare: risulta che fosse diacono, uno dei sette impegnato nel servizio delle mense, proveniente dalla lontana Cesarea, che svolgesse un ministero di evangelizzazione (evangelista, viene chiamato) e che avesse famiglia con quattro figlie da mantenere, “vergini, che avevano il dono della profezia” (At 21, 9).


3. Salire sul carro dell’altro (accompagnare)

Il di più che il Signore ci chiede è “questo correre innanzi” al carro dell’altro, lo sforzo gratuito che non aspetta l’altro, ma lo raggiunge nella sua situazione esistenziale. Il cristiano non si attacca al carro di nessuno, ma fa in modo di salirvi per aprire un dialogo. “Salire sul carro” dell’altro, significa rispettare la sua velocità, i tempi della sua crescita e della sua maturazione. Il “carro” dell’eunuco è tutto il suo mondo. Filippo non lo giudica e non lo contesta; ciò che gli interessa è la persona, cioè l’eunuco con la sua domanda buttata lì apparentemente per caso, ma che invece vuole sciogliere un’angoscia probabilmente portata da sempre nel cuore.
Un uomo eunuco ancora al tempo di Gesù era molto disprezzato. La prescrizione del Deuteronomio era durissima:”Non entrerà nella comunità del Signore chi ha il membro contuso o mutilato. Il bastardo non entrerà nella comunità del Signore; nessuno dei suoi, neppure alla decima generazione” (Dt 23,2). Bisogna aspettare l’ultima letteratura profetico sapienziale per una parola di speranza: “Non dica l’eunuco: ecco io sono un albero secco!” (Is 56,3), “Anche l’eunuco la cui mano non ha commesso iniquità e che non ha pensato cose malvage contro il Signore riceverà una grazia speciale per la sua fedeltà, una parte più desiderabile nel tempio del Signore” ( Sap 3,14); ma il pregiudizio era certamente ostinato. Spesso un eunuco era potente perché messo a custodia di ricchezze e di harem di donne (cf. Est 2,14) su cui non avrebbe potuto mettere le mani; ma era considerato comunque un essere inferiore, uno senza possibilità di avere figli e quindi senza discendenza, senza futuro, inutile, un morto vivente! Essere sfortunati e tristi è essere “come un eunuco che abbraccia una vergine e sospira” (Sir 30,20). E’ questa la tristezza dell’eunuco che Filippo incontra sulla strada da Gerusalemme a Gaza.
 
Pensiamo quale curiosità e quale desiderio nasceva nel suo cuore a leggere il profeta Isaia: un uomo va a morire innocente come un agnello mansueto, eppure… avrà una discendenza! (cf. Is 53,7-8).
Potrebbe anche capitare a qualcun altro? - si chiede quell’uomo su quel carro - potrebbe capitare anche a me, eunuco della regina Candace? Potrebbe questa morte che sento nel cuore trasformarsi in vita?”. “E’ possibile diventare fecondi dopo essere stati eunuchi?”; è questa la vera domanda che Filippo legge e intercetta nel cuore dell’eunuco.
Persone anche battezzate, ma lontane dalla Chiesa, fanno delle domande a volte provocatorie. Dietro una domanda c’è sempre un problema. Ti chiedono magari: “Scusi, cosa pensa la Chiesa dei divorziati?...”. Dietro c’è di sicuro la sofferenza di un divorzio; chi fa la domanda probabilmente sa bene cosa dice la Chiesa del sacramento del matrimonio, ma, in quel momento ha bisogno di essere accolto nella sua condizione di divorziato, con tutto il dramma della sua storia, di sapere che anche per lui c’è una possibilità di vita nella comunità cristiana, e che la Chiesa è ancora sua madre. Non possiamo tenere a mente delle risposte preconfezionate; piuttosto, prima ancora di dare una risposta, dobbiamo provare a intercettare il senso profondo della domanda; intercettare ed evangelizzare la domanda, perché sia l’altro a trovare la risposta, a riconoscere il peso morale della propria situazione senza restarne schiacciato.
 
“Salire sul carro” dell’altro non è facile. Richiede una vera formazione all’accompagnamento, quella via di mezzo tra compassione e distacco che consente un reale intervento e una relazione di vero aiuto. Sarebbe bello far crescere in numero e qualità questi momenti formativi. Già l’anno scorso, riflettendo sul cammino dei due discepoli verso Emmaus,  abbiamo evidenziato la meravigliosa pedagogia dell’accompagnamento sviluppata da Gesù. Rimando a quello. Molti punti in comune si possono trovare con il nostro brano. Il ricorso alle scienze umane, sebbene richieda prudenza e un discernimento sull’antropologia che sta dietro alle varie scuole di pensiero, tuttavia si rivela uno strumento importante per chi non vuole vivere il Vangelo solo come un fatto sentimentale, ma come un impegno di vita che può realmente cambiare la vita dell’altro. Non dobbiamo infatti separare le componenti della persona (corpo, psiche, spirito) che ne costituiscono l’unità.
Una seria verifica della modalità di approccio (ovvero: perché siamo saliti proprio su quel carro?) consente quella libertà e gratuità che caratterizza il nostro Filippo: compiuto il proprio mandato l’accompagnatore si mette da parte e l’altro rimane libero. Nel salire sul carro non vi si deve rimanere impigliati e l’amore spirituale per l’altro deve vincere sull’amore psichico: ciò che nasce infatti dalla carne è carne, e ciò che nasce dallo Spirito, è Spirito (Cf. Gv 3,6).
 
Sarebbe bene che gli operatori pastorali, inseriti in una parrocchia, o facenti parte di un Gruppo, di un Movimento, di un’Associazione, conoscessero bene le varie spiritualità presenti nella nostra Chiesa e anche i luoghi dello Spirito in cui si può fare esperienza di incontro personale con Dio. La santità di singole potenti personalità ha segnato strade differenti di santificazione, ma tutte portano a Cristo, tutte convivono mirabilmente nella Chiesa. Ogni persona ha una propria sensibilità spirituale e fa parte dell’accompagnamento indirizzarla sulla strada più adatta. Anche questo è un gesto di libertà, che non mancherà di avere la sua ricompensa.
 
Auspicabile sarebbe anche il recupero più vitale di una pastorale orientata ai vari ambienti, senza separarla dalla pastorale ordinaria delle parrocchie.
Lasciando come punto fermo che l’eucaristia domenicale è l’incontro fondamentale della comunità parrocchiale, è pure vero che per quanto riguarda la formazione cristiana l’attuale mobilità non sempre consente un inserimento degli adulti nella catechesi parrocchiale ordinaria. Un’attenzione alle singole realtà (la cosiddetta pastorale d’ambiente) può anche essere rispettosa di cammini specifici che altrimenti potrebbero annacquarsi o risultare impossibili (pensiamo agli artisti, ai medici, ai professionisti in genere, agli agricoltori o a quanti svolgono lavori che impegnano anche la domenica). Anche questi sono “carri” su cui bisogna salire.


4. Evangelizzare Gesù per dare un nuovo senso alla strada (narrare)

Evangelizzare significa raccontare all’uomo di ogni tempo la più bella notizia: Gesù.
E’ quello che ha fatto Filippo con l’eunuco. Nella storia esemplare di Gesù l’eunuco trova la risposta alla propria sterilità, la accetta pienamente e la rende così, secondo il paradosso del Vangelo, sterilità feconda. Mi accorgo con gioia della grande ricchezza che c’è nella Chiesa dentro i Movimenti e i Gruppi ecclesiali; tutti, pur sviluppando aspetti differenti della vita cristiana, sono accomunati da questo clima “narrativo” dell’annuncio di Cristo e lo inseriscono in un originale percorso di formazione: prendono come modello pedagogico la Strada (Agesci), propongono un cammino guidato dalla Parola (Neocatecumenali), attingono alla Sua forza trasformante per il dono dello Spirito (Rinnovamento), La incarnano nel servizio al territorio (Azione Cattolica), chiedono a questa Parola di dare un giudizio liberante sulla storia (Comunione e Liberazione), ne fanno strumento di unità ecumenica (Focolari) o proposta privilegiata per la vocazione dei giovani (Movimento Apostolico); e altre realtà potremmo nominare come frutto di quella nuova Pentecoste invocata al Concilio Vaticano II quarant’anni fa. Il racconto della Pasqua di Gesù ha il potere dato dallo Spirito alla Parola di trasformare il cuore di tutti. La parrocchia dovrebbe essere luogo in cui ci si ferma a vivere l’assemblea domenicale, a formare un solo corpo nutriti dall’unico pane nel riposo della Pasqua settimanale.
 
Attraverso la chiave che Filippo gli dà per l’interpretazione della sua vita l’eunuco può passare dall’incontro con una Parola all’incontro con una Persona, il Cristo. Se in Gesù, Servo Sofferente, la condizione di morte è stata vinta dalla potenza della risurrezione, questa possibilità riguarda ciascun uomo che Lo accoglie. Dalla sua condizione di impotenza e di morte, di sterilità e solitudine l’eunuco si è aperto alle immense possibilità dello Spirito e ora “tutto può in Colui che gli dà la forza” (Fil 4,13).
 
La pastorale delle parrocchie si china misericordiosa su tutte le situazioni di sterilità, di infecondità, di morte; e le evangelizza. Esse sono tante.
Pensiamo a quanti hanno fallito il loro matrimonio e si sono legati ad un’altra persona magari non sposata; o alla sofferta infecondità di quanti, abbandonati dal coniuge, continuano ad essere fedeli al sacramento, incorrendo spesso nel biasimo e nella derisione; o a quanti preferiscono la convivenza al riconoscimento della propria unione condannandola alla sterilità sociale.
C’è l’infecondità biologica di alcune coppie. Questa spesso procura loro sofferenze psichiche inaudite, le conduce a crisi relazionali profonde o le porta al martirio di terapie dolorosissime non sempre sostenute da una visione etica delle cure adottate pur di avere a qualunque costo un figlio.
Drammatica è l’infecondità provocata dall’aborto; esso è assunto come soluzione estrema per sfuggire al biasimo sociale, o per evitare il peso di paternità e maternità non volute o scelto con dissennata superficialità per non rinunciare al proprio benessere, o per povertà o per ignoranza: l’aborto è piaga ancora diffusa, indotto dall’egoismo di tanti uomini e praticato con leggerezza da tante donne, che spesso solo dopo, e troppo tardi, prendono dolorosa coscienza d’essersi rese arbitre della vita di qualcun altro.
Anche la sofferenza fisica, una malattia cronica dura da sopportare o un handicap non accettato possono chiudere il cuore alla Grazia.
Ma la morte può abitare ancor più nel cuore di quanti sono incapaci di dare un perdono a chi li ha gravemente offesi. Frequentano magari la parrocchia, si accostano ai sacramenti, ma covano odio nel cuore e vivono una vita spirituale infeconda senza i frutti delle opere buone.
Altri, toccati dalla morte di un familiare, non riescono ad accogliere la speranza della risurrezione per i loro cari. Già nel piano pastorale La speranza non delude (p. 21) accennavo all’urgenza di attenzionare queste situazioni di morte facendo dei cimiteri un luogo privilegiato di evangelizzazione.
Il mondo giovanile è attratto da tutto ciò che è estremo, compresa la morte. La perdita dei valori e l’assenza di centrali educative dotate di autentica forza centripeta li lascia in balìa di una cultura dell’effimero, in cui anche la vita finisce per essere disprezzata. In internet molti portali sono dedicati alla morte o veicolano messaggi di violenza o odio razziale, la cinematografia cerca trame sempre più cruente, e così la stampa giovanile, compresi i fumetti o i videogiochi. Sono davanti a noi gli episodi di cronaca in cui i giovani sono protagonisti di efferati delitti; e già nel passato ho invitato a riflettere sull’inquietante aumento tra loro del numero dei suicidi proprio sul nostro territorio. E sulla strada molti giovani muoiono per l’alta velocità, ultimo sballo di intere notti trascorse fuori di casa.
Cosa sarà mai della nostra società se l’albero più bello, quello della giovinezza, avvizzisce sterile, incapace di produrre frutti di rinnovamento?
Anche i poveri, spesso vittime dell’ingiustizia della nostra società, delusi nelle aspettative di un dignitoso posto di lavoro, si chiudono in una sorda rabbia verso tutte le Istituzioni; rabbia che non di rado rivolgono anche contro la Chiesa, le cui strutture e i cui beni vengono da essi visti come un privilegio da ricchi.
C’è poi una povertà spirituale, forse la più infeconda, quella di coloro che mettono la loro vita in mano ai maghi, spesso conducendo alla rovina economica la propria famiglia; di coloro che praticano lo spiritismo, e si dilettano di scienze occulte, di esoterismo, rivestendo di una patina culturale il proprio assenso a satana e aderendo a sette contrarie ai valori del Vangelo. Altri, solo per ignoranza, danno a spiritari e fattucchieri un rispetto di cui dovrebbero piuttosto vergognarsi.
Ho detto già tante volte che la piaga di queste perniciose sterilità dell’anima può essere curata solo con una diffusione ad ampio raggio del Vangelo e delle Scritture nelle forme pastorali che sembrano più adatte (CEB, Cellule di evangelizzazione, Gruppi biblici, Peregrinatio Mariae) e con l’assunzione delle forme di pietà popolare opportunamente purificate da ciò che non è conforme al Vangelo e raccordate con la pedagogia sapiente dell’anno liturgico.
Viviamo inoltre in un territorio che “storicamente è la culla del fenomeno malavitoso tristemente noto con il nome di mafia; mentre la massoneria, sistema perverso di un pensare e di un progettare politico, economico e sociale, - e anima di un sistema burocratico che schiavizza le coscienze, - ha messo radici nella nostra cultura, condizionandone la vita e lo sviluppo” ( da Ecco ora il momento favorevole, p. 5)
 
In molte di queste situazioni descritte non si può cambiare la condizione di partenza, ma l’annuncio e l’accoglienza del Cristo risorto producono un ri-orientamento della vita che consente di guardare con occhi nuovi alla propria situazione (è questo il senso della parola conversione). Un passato di morte può trasformarsi in un luminoso futuro di vita. Il nostro eunuco non cambia la meta del suo viaggio: l’aspetta a Gaza la Regina Candace, i suoi doveri di tesoriere. Ma l’acqua trovata in quel deserto gli ha cambiato l’atteggiamento del cuore.
 
Non mancano i segni di speranza.
Molti cristiani, dopo aver lasciato per lungo tempo le sorgenti della Grazia nella Chiesa, in seguito ad esperienze negative vissute lontano dalla comunità ecclesiale, o a causa di un lutto o di una sofferenza, magari evangelizzati da un “Filippo” di turno (per grazia di Dio ce ne sono tanti anche nella nostra Chiesa), decidono di ritornare alla vita di fede e alla pratica dei sacramenti. Sono a volte poco preparati, bisognosi di una catechesi appropriata, ma pieni di entusiasmo; da alcuni, in particolare in Francia dove esiste un’azione pastorale specifica per loro, vengono chiamati: “I ricomincianti”; essi sono una speranza per tutti noi, segno di una accondiscendenza benevola dello Spirito di Cristo che mai abbandona la sua Chiesa, ma sempre la ringiovanisce, la rinnova e mette nel cuore del figlio perduto il desiderio del ritorno alla casa paterna.
 
Guardiamo a tante testimonianze d’amore cristiano che, non disdegnando il pericolo e la precarietà della strada, vanno a cercare le persone rese infeconde dalle ingiustizie della nostra società, quindi incapaci di scegliere da sole la via del bene. Pensiamo al lavoro che uomini come don Oreste Benzi stanno facendo con le persone disabili, o le prostitute, o i tossicodipendenti in centri di accoglienza o attraverso la struttura delle case-famiglia dell’Associazione Giovanni XXIII; o alla missione “Speranza e Carità” portata avanti a Palermo da Biagio Conte verso i barboni senza casa che di notte, perduti per le strade della città, hanno bisogno di cure. Ma anche nella nostra diocesi si avvertono segni positivi sia nel lavoro dei centri di ascolto Caritas delle parrocchie sia nella promozione umana promossa dalla Caritas diocesana, ma anche in una ripresa del volontariato che solo nella gratuità del suo proporsi può tornare ad avere la patente di credibilità.
 

5. Sulla strada giungere al luogo dell’acqua (celebrare)

L’arrivo di Gesù nella vita di una persona non le toglie la libertà di accoglierLo o rifiutarLo. Nel deserto è l’eunuco a vedere l’acqua, è lui a chiedere di ricevere il battesimo. Poca acqua diventa fiume che sgorga dal suo cuore, capace di dare fecondità alla sua vita sterile.
 
Il nostro brano ripresenta tutti i contenuti esodiali del battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista: il deserto, l’acqua, il salire e scendere in quest’acqua. Non si vedono squarciare i cieli, ma in realtà la grazia di Dio che inonda il cuore dell’eunuco si fa risposta a quell’invocazione di tutta l’umanità elevata per bocca del profeta: “Oh se tu squarciassi i cieli e scendessi” (Is 63,19)
I cieli ora abitano sulla terra, nel cuore di un uomo prima triste ed ora felice.
Come l’eunuco, ogni uomo che compie il proprio dovere per amore di Cristo, anche il più nascosto, il più timido, rende feconda la propria vita e riversa sulla società in cui vive e sulla Chiesa i semi della speranza cristiana.
 
E in attesa di chiarire meglio nel prossimo Piano le dinamiche che devono essere attenzionate nell’iniziazione cristiana dei fanciulli o alla fine del catecumenato di adulti non ancora battezzati, ci piace concludere questa nostra riflessione con l’immagine dell’eunuco che riprende il suo viaggio da uomo totalmente libero e “pieno di gioia”.



6. Andare gioiosi per la propria strada (vivere in Cristo)

L’eunuco è una persona potente e ricca, ma sola ed emarginata. Pur avendo tutto si sente estraneo a quella stessa strada che lo riconduce a casa. Con una finezza che non stupisce nell’evangelista del Magnificat il nostro brano, subito dopo aver raccontato la conversione dell’eunuco, sottolinea che egli “proseguì per la sua strada”. Pur tornando nello stesso posto l’eunuco ha trovato la “sua” strada. Chi ha fatto l’esperienza della conversione sa bene di cosa parliamo: nulla cambia, eppure tutto cambia; la presenza di Cristo fa riappropriare della propria storia, la fa leggere con tutti i segni che conducevano a lui, ora finalmente ci appartiene e noi le apparteniamo. E’ la compagnia della fede che non ci lascia più soli su nessuna strada. La gioia  rende spedito il passo verso una meta che va oltre Gaza, e ritorna a Gerusalemme come meta finale, dinanzi alla quale il credente potrà cantare: “Quale gioia quando mi dissero andremo alla casa del Signore” (Sal 122,1).
Il nostro eunuco, forse nato così, o reso eunuco dagli uomini, ora, nella Grazia, “si è fatto eunuco per il regno dei cieli” (cf. Mt 19,12). Per questo è “pieno di gioia”. Luca stupendamente usa lo stesso verbo con cui l’angelo ha salutato Maria  nell’Annunciazione: “Gioisci, o piena di Grazia, il Signore è con te” (Lc 1,28). Così, pieno di Grazia, pienamente gioisce l’eunuco, perché il Signore è con lui in quel deserto, su quella strada.
 
 
La gioia è la prova che il sacramento è operante e che lo Spirito agisce nella vita di una persona. Se tornassimo all’inizio del brano a trovare Filippo quando viene chiamato dallo Spirito e prima che vada sulla strada ad evangelizzare l’eunuco, lo troveremmo pieno di quella stessa gioia che alla fine del suo incontro troviamo nel cuore dell’eunuco che ha accolto Cristo.
La tristezza, come insistono a dire tutti i maestri dello Spirito, è una conseguenza del peccato, oppure nasce da chiusura spirituale e incapacità di abbandono alla volontà di Dio. La gioia è invece il primo frutto della Pasqua (“I discepoli gioirono al vedere il Signore”, Gv 20,20), secondo la sua promessa:”Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv15,11); è il primo segno dell’accoglienza del Regno: “Il regno di Dio è gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17) e manifestazione dello Spirito:”I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo” (At 13,52).
La gioia non deve confondersi con l’allegria, con la scherzosità o la giovialità, tutte qualità apprezzabili, ma legate semplicemente al carattere di una persona.
Paolo VI uomo dallo sguardo severo e dal sorriso difficile ha scritto parole bellissime sulla gioia cristiana.
 
 
La conversione è mettersi sulla giusta strada, progredire nella vera libertà e nella gioia” (Paolo VI, Gaudete in Domino, cap. V, 1975)
Questa gioia per dirla con Paolo VI, vuole essere ”una gioia per tutto il mondo”:
Il nostro spirito e il nostro cuore si rivolgono anche verso coloro che vivono al di là della sfera visibile del popolo di Dio. Conformando la loro vita ai richiami più profondi della propria coscienza, che è l’eco della voce di Dio, anch’essi sono sulla via della gioia.
Ma il popolo di Dio non può avanzare senza guide. Sono i pastori, i teologi, i maestri di spirito, i sacerdoti e quanti con essi collaborano all’animazione delle comunità cristiane. La loro missione è di aiutare i fratelli ad incamminarsi sui sentieri della gioia evangelica, in mezzo alle realtà di cui è costituita la loro vita e dalle quali non potrebbero evadere” (Id.)
Questi “sentieri della gioia” sono quelle strade su cui devono uscire le nostre parrocchie per adempiere quella missione della gioia che è il mandato di Cristo a tutti noi. Annunciamo dunque questa gioia per fare nostre le parole di san Giovanni:”Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi… e la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4).
 


CONCLUSIONE

Nel rapporto tra la Chiesa e il mondo, tra lo spazio del sacro e la strada, esiste “un pericolo reale e che oggi più di prima cogliamo nella sua drammaticità” (EN): è il loro dualismo, la loro separazione che può “accentuarsi a tal punto da fare della comunità ecclesiale un cenacolo chiuso, sequestrato dalla società in cui si trova e paralizzato nella sua efficienza sia dottrinale che pedagogica, caritativa e sociale e da rendere il mondo profano insensibile ai problemi religiosi, ai massimi problemi della vita, e perciò esposto al ricorrente pericolo di credersi da sé sufficiente, con tutte le conseguenze dolorose che tale illusione porta alla fine con sé. Occorre un ponte che metta la vita religiosa della Chiesa in comunicazione con la vita profana della società temporale” (Id): il ponte è il “Filippo” che vive la duplice appartenenza, la soffre e ne diventa anima. Per “Filippo” non si deve intendere semplicemente il singolo, ma la comunità che lo manda. Filippo è la comunità, siamo tutti noi.
Non c’è alternativa per la Chiesa a quella di stare sulla strada e di vivere la strada.
 S’impone con forza la necessità e l’urgenza di rifiutare la tentazione-illusione di poter vivere al sicuro nella nostra “torre d’avorio”.
 
E a conclusione rivolgiamo lo sguardo a Maria per chiedere il suo materno aiuto.
Raggiunta nella sua casa, dentro la vita di ogni giorno, dalla visita di un Angelo messaggero, con il suo fiat si fa Lei stessa “strada” per il Verbo che s’incarna nel suo grembo; e dandoLo alla luce , non esita a seguirLo come discepola e pellegrina per le strade della Palestina. Essa diventa così icona visibile del cammino di tutti i battezzati, “quelli della strada
Sulla strada con Cristo, “Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti” (At 10,38), è Maria, anch’essa pellegrina. Attenta ai bisogni del prossimo (la cugina Elisabetta), profuga in Egitto a causa della prepotenza di Erode, discepola del Maestro da Bethlemme fino al Calvario, Maria si ferma solo sotto la croce (Stabat mater) su cui è inchiodato suo Figlio. In realtà Maria sotto la croce ha preso la direzione nuova, non più quella orizzontale del cammino terreno, ma quella verticale della salita al cielo. Associata in tal modo al dolore della morte del Figlio, ha potuto partecipare anche alla gioia della sua risurrezione, percorrendo con Lui, assunta in corpo ed anima, la strada verso il Padre. Maria indica a noi, ancora sulle strade del mondo e immersi nella complessità e ricchezza di tutti i nostri cammini, la dolcissima Meta.


Nel rapporto tra la Chiesa e il mondo, tra lo spazio del sacro e la strada, esiste “” (EN): è il loro dualismo, la loro separazione che può “” (Id): il ponte è il “Filippo” che vive la duplice appartenenza, la soffre e ne diventa anima. Per “Filippo” non si deve intendere semplicemente il singolo, ma la comunità che lo manda. Filippo è la comunità, siamo tutti noi.Non c’è alternativa per la Chiesa a quella di stare sulla strada e di vivere la strada. S’impone con forza la necessità e l’urgenza di rifiutare la tentazione-illusione di poter vivere al sicuro nella nostra “torre d’avorio”. E a conclusione rivolgiamo lo sguardo a Maria per chiedere il suo materno aiuto.Raggiunta nella sua casa, dentro la vita di ogni giorno, dalla visita di un Angelo messaggero, con il suo si fa Lei stessa “strada” per il Verbo che s’incarna nel suo grembo; e dandoLo alla luce , non esita a seguirLo come discepola e pellegrina per le strade della Palestina. Essa diventa così icona visibile del cammino di tutti i battezzati, “”Sulla strada con Cristo, “Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti” (At 10,38), è Maria, anch’essa pellegrina. Attenta ai bisogni del prossimo (la cugina Elisabetta), profuga in Egitto a causa della prepotenza di Erode, discepola del Maestro da Bethlemme fino al Calvario, Maria si ferma solo sotto la croce () su cui è inchiodato suo Figlio. In realtà Maria sotto la croce ha preso la direzione nuova, non più quella orizzontale del cammino terreno, ma quella verticale della salita al cielo. Associata in tal modo al dolore della morte del Figlio, ha potuto partecipare anche alla gioia della sua risurrezione, percorrendo con Lui, assunta in corpo ed anima, la strada verso il Padre. Maria indica a noi, ancora sulle strade del mondo e immersi nella complessità e ricchezza di tutti i nostri cammini, la dolcissima Meta.


Santa Maria della strada,
dolcissima Mamma,
tu che hai generato
per opera dello Spirito Santo il Verbo del Padre
Cristo Gesù nostro Signore
Strada, Verità e Vita,
indica, sostieni e guida
il cammino pastorale della nostra Chiesa.
 
La strada della Luce
ci trovi attenti alla divina Parola
e ci faccia essere uomini e donne
alla ricerca della Verità che salva.
 
Fa’, o Madre della Chiesa,
che non manchino mai
ministri del Signore
che mossi dallo Spirito
accompagnino passo passo
gli uomini e le donne del nostro tempo
alla scoperta di Cristo
unico Salvatore ieri, oggi e sempre.
 
La nostra santa Chiesa di Trapani
esca dal Cenacolo
senza lasciare il Cenacolo.
Ami stare e vivere tra la gente:
ascoltare-dialogare-incontrare
l’uomo in situazione.
Generi battezzati
con il desiderio, la pazienza e il gusto
di scommettersi totalmente per il Regno.
Susciti  apostoli
disposti a lasciarsi condurre dallo Spirito,
pieni di zelo e ardore di santità.
Intercetti la domanda di Dio
che attraversa la storia di oggi.

Narri
con spirito profetico, tatto ed amore
le meraviglie del Signore.
 
Ottienici, o Madre amabile, la grazia
di incontrare operatori pastorali
coraggiosi e intelligenti,
credibili ed entusiasti
insieme ai quali poter compiere,
 stando sulla strada e vivendo la strada,
un fruttuoso itinerario dell’anima.
 
Nelle  nostre comunità parrocchiali
luoghi di accoglienza, di ascolto e di dialogo
non manchi a nessuno il Filippo che accompagni
con discrezione e con amore
quanti sono alla ricerca del senso della vita
e li istradi
al Solo degno
di essere riconosciuto, amato e servito:
Cristo Gesù nostro Signore.
 
A te, Santa Maria della strada,
rivolgiamo la nostra filiale preghiera:
nello stile della gratuità,
aiutaci a costruire parrocchie nuove
tese alla santità, strada ordinaria del cristiano.
 
Alla Trinità Santissima
Padre, Figlio e Spirito Santo
termine ultimo del nostro cammino
insieme a te, o Maria,
sale dal cuore della nostra Chiesa
l’adorazione, il ringraziamento e la lode.
Amen.